The final countdown. È cominciato il conto alla rovescia per la fine dell’anno scolastico, ma si potrebbe dire che è iniziato in settembre, sequenziato dalle varie vacanze, di Natale, carnevale, Pasqua. Ogni mattina, all’ingresso della scuola, la bidella accoglie sorridente gli studenti, igienizzando loro le mani e controllando la temperatura: “forza ragazzi! Mancano venti giorni, quindici giorni, dieci giorni!”, ed al suon di quella voce, diresti che il loro cor si riconforta. Tanto basta, agli esausti giovanotti e alle sfinite giovanotte, per trascinarsi più speranzosi nelle aule, confidando nella vicina liberazione. Genitori e professori, immagino, provvedono ugualmente al loro compito di consolare i giovani dell’umano stato, non trovando altro ufficio più grato. Riprova ulteriore, se mai ce ne fosse bisogno, della verità delle parole del Recanatese: “uscir di pena / è diletto fra noi”: “la cessazione di qualunque dolore o disagio, è piacere per se medesimo”.
Verrebbe voglia di rivolgermi ai garzoncelli scherzosi ammonendoli a non precorrere la festa della vita, ma poi provo a immedesimarmi con loro. Non mi riesce particolarmente difficile. La pandemia, il lockdown, la Dad, le mascherine tuttora obbligatorie e da febbraio la guerra in Ucraina. E a ciò si aggiungano i dolori privati, di cui sappiamo poco, a volte più feroci di quelli conosciuti. Una generazione messa a dura prova.
Complice il caldo improvviso, alla fine delle lezioni i ragazzi sciamano leggeri verso la vicina piazza inondata di luce, affollata da turisti italiani e stranieri, ebbri del sole e dell’aria che preannuncia le vacanze, nonostante tutto. Allora penso che questo insopprimibile desiderio di felicità, o forse solo di sollievo, è un bene da non trascurare, come qualcosa di vivo e reale. Il valore di un’attesa, per quanto storpiata e confusa.
Mentre al mattino percorro le vie del centro, quando la città si sveglia e offre il suo volto migliore, mi imbatto in una scritta che qualcuno ha vergato sul muro di un palazzo. Sono i primi versi di una poesia degli Indiani d’America, La preghiera del silenzio, che qui trascrivo integralmente. “Siediti ai bordi dell’aurora, / per te si leverà il sole. / Siediti ai bordi della notte, / per te scintilleranno le stelle. / Siediti ai bordi del torrente, / per te canterà l’usignolo. / Siediti ai bordi del silenzio, / Dio ti parlerà”.
La leggo come un augurio di uno sconosciuto al nostro cuore inquieto, sempre dibattuto tra passioni opposte. Da un lato, vivo con entusiasmo questi ultimi giorni, constatando ancora una volta il fascino che la grande letteratura continua ad esercitare nei giovani; a volte, invece, in me prevale la stanchezza di un anno periglioso. Sta a noi, a me, decidere ogni giorno dove volgere lo sguardo.
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