O adesso o mai più. O la scuola sfrutta l’hic et nunc imposto dai mutamenti pandemici oppure è destinata a tornare sui binari che anche da queste colonne ho denunciato a più riprese: la scuola di pochi nascosta sotto la scuola di tutti. Scriveva Davide Rondoni nel giugno 2019, ultimo anno in classe senza Covid: “Giratele, le scuole italiane e accanto allo splendore di persone impegnate ben oltre il dovuto troverete i segni fatali di una rovina, magari ammantata di sigle burocratiche. Rovina di un’idea e rovina di anime che non sono più educate, ma istruite, e perciò male istruite”.
Cioè a dire: formazione approssimativa, calibrata sulla “media”, infarcita di riferimenti al mondo del lavoro perché ad esso prona, orfana della bellezza che deriva dallo studio e dalla contemplazione di un’opera generata dallo spirito. Nel suo messaggio di pochi giorni fa al mondo della scuola, papa Francesco lo ha ribadito: “L’educazione è una delle vie più efficaci per umanizzare il mondo e la storia”. Ma come si fa a renderli più umani se si insegna il disvsalore della mediocrità?
I miei colleghi delle superiori me lo hanno confermato tra fine agosto e inizio settembre: gli esami per il recupero dei debiti accumulati a giugno si sono rivelati una tragedia sotto il profilo delle conoscenze e anche delle tanto sbandierate competenze. Alunni svogliati, superficiali, lontani da qualsivoglia idea di riscatto, tanto consapevoli dell’inutilità del gesto da presentarsi più o meno nelle stesse condizioni in cui si erano congedati l’ultimo giorno di lezione. Eppure promossi. Perché non c’è rivoluzione didattica che tenga se non c’è amore per il Destino di chi sta seduto dietro ad un banco. Non contano i progetti dai nomi altisonanti (Inclusione e Integrazione), le sovrastrutture che puzzano lontano un miglio di burocrazia (dipartimenti al posto delle aree disciplinari, neanche fossero una dipendenza dell’università), gli orari prolungati fino al tardo pomeriggio (togliendo ai ragazzi ogni anelito di libertà costruita da sé, salvo poi spedirli nel fine settimana in piscina o in palestra, altri luoghi dove tutto è già programmato) se poi non si insegna l’arte di imparare.
Il recentissimo rapporto di Save the Children sull’abbandono scolastico grida al mondo una verità ben nota: il re è nudo. Soffermandosi sulla dispersione scolastica implicita, “scopriamo” che in Italia circa il 10 per cento di chi ha concluso il ciclo di studi superiori non ha raggiunto la sufficienza in italiano, matematica e inglese, con punte che sfiorano il 15 per cento nelle regioni del Sud. Possiamo ragionevolmente aggiungere, in base all’esperienza, che percentuali almeno analoghe riguardano le sufficienze tirate per i capelli e concludiamo che dopo tredici anni di scuola (salvo ripetizioni, per altro rare) e raggiunta la maggiore età, uno studente su quattro legge, scrive, fa i conti con estrema difficoltà. Domanda: che valore di “mercato” può avere un diploma raggiunto in questo modo? E se, come evidente, non ne ha, perché viene dispensato con tanta facilità? Perché far passare il principio che, come spesso accade con l’esame per la patente, “un diploma non si nega a nessuno”, svilendo così il valore tanto di chi se lo è visto regalare quanto di chi se lo è sudato?
È la scuola della mediocrità dove non si cura il talento, ma la percentuale di promozioni: più è elevata, molto prossima al 100 per 100, più il singolo istituto fa bella figura, rientra nei parametri europei, il dirigente è contento, dall’alto non arriverà alcun rimbrotto. Invece, anche in queste settimane si sente parlare solo e soltanto di classi pollaio, didattica a distanza (doveva essere la soluzione di tutti i mali, invece li ha moltiplicati), mascherine, distanziamento, green pass… Questioni serie, non c’è dubbio, ma che girano intorno al buco nero dell’educazione vera che con tutto questo c’entra poco perché, riprendendo papa Francesco, “l’educazione è soprattutto una questione di amore”. Che è una cosa molto seria. Anzi, l’unica che conta.