Bisogna saper fare autocritica. Se rileggo quello che ho scritto qui alla vigilia di questo esame, mi scopro ingenuamente ottimista. Parlavo della bellezza di tornare “in presenza”, dell’importanza “simbolica” del gesto di riappropriarsi delle aule scolastiche dopo il periodo surreale della didattica a distanza. Non avevo considerato un fatto molto semplice, e cioè che non saremmo tornati principalmente per un incontro, per un bel momento di condivisione, ma per una prova d’esame che inevitabilmente va a finire in un voto, in una valutazione, all’interno di un format che è molto discutibile e discusso e che negli ultimi anni (per motivi vari) cambia veste troppo spesso.
Oggi sono più che mai convinto che i consigli di classe di tutta Italia sarebbero stati in grado (grazie a due anni e mezzo di conoscenza diretta degli studenti) di formulare quel voto, senza il bisogno di impalcare questo rito. Sono anche consapevole che alcuni vedranno il bicchiere mezzo pieno e avranno le loro buone ragioni. Per me è piuttosto vuoto.
Non era proprio il caso di impiantare un esame al termine di un anno così strano e accidentato, a ridosso di un lockdown disorientante per tutti, che ha messo in crisi la didattica (almeno inizialmente) e soprattutto la valutazione, la verifica degli apprendimenti. L’emergenza sanitaria, poi, ha fatto il resto, riducendo l’esame ad un colloquio, eliminando le prove scritte, che di solito fornivano un elemento di oggettività, in quanto mettevano in evidenza i punti di debolezza, ma anche di forza dei candidati (penso a quelli che scrivono molto bene e che non hanno potuto dimostrare le loro effettive capacità in sede d’esame). Al posto delle prove scritte sono state introdotte due novità, le ennesime novità in questo rito cangiante: l’elaborato nelle materie di indirizzo e la discussione di un testo tratto dal programma di letteratura italiana. E queste novità sono state definite a ridosso dell’esame, all’ultimo momento, senza dare la possibilità a docenti e studenti di prepararle in modo adeguato.
Più problematico l’elaborato nelle materie di indirizzo, sulla cui effettiva elaborazione da parte dello studente potevano esserci tutti i dubbi del mondo. Se l’anno scorso definivo l’esame di Stato un’istigazione al Bignami, qui mi sentirei di dire che facilmente è diventato un’istigazione al “rimasticato”: lo studente rimastica quello che è stato masticato da altri, reperito sul web, luogo ideale per trovare di tutto un po’.
Ma d’altra parte come potevano essere prodotti degli elaborati seri in così poco tempo, diciamo pure all’ultimo momento? E così, lavorando in un liceo classico, mi sono sentito più volte liquidare il De Amicitia di Cicerone con una battuta, una breve citazione, estrapolata da un trattato che, tanto per dire, è stato capace di appassionare un Dante Alighieri a tal punto da buttarlo nelle braccia della filosofia. Quanti, invece, l’hanno citato avendolo letto integralmente? Posso sbagliarmi, ma in questo modo si dà proprio l’esca allo studente per la cultura del patchwork, del “copia-incolla”, del rimasticato, appunto, vero virus col quale la didattica deve fare i conti e per il quale bisogna trovare dei vaccini.
Meglio (ma qui sono di parte) lo spazio riservato alla letteratura italiana, che però è stato costruito senza precise indicazioni, lasciandolo alla creatività delle varie commissioni. Ci sono stati consigli di classe che hanno proposto tutti i testi in programma. Altri che hanno ridotto i testi, realizzando una selezione. E questa selezione alcuni l’hanno dichiarata nei documenti ufficiali, altri l’hanno più o meno tenuta segreta. Conosco il caso di una regione dove in tre province si sono attuate tre modalità diverse. Massima discrezionalità anche sulla percentuale dei testi da proporre ai candidati (con possibili significative variazioni anche da commissione a commissione). E, infine, oscurità totale su come assegnare il testo al candidato: a scelta del docente o a scelta del caso, col ritorno all’estrazione? Non c’erano più le tre buste coi materiali del colloquio multidisciplinare. Già, ma allora come scegliere il materiale? Contraddizioni o oscurità di un esame che si è voluto fare per forza, sapendo bene che si operava in condizioni straordinarie.
Non parliamo, poi, del meccanismo dei bonus, che ha fatto schizzare i voti verso l’alto, soprattutto laddove i consigli di classe hanno facilmente dato un voto alla carriera dello studente, piuttosto che all’effettiva conduzione del colloquio. In alcuni consigli è prevalso quel buonismo ormai diffuso nella scuola italiana, specie poi nei confronti di studenti che hanno sofferto per il lockdown. Altrove, magari, si sarà anche verificato il caso opposto, altrettanto triste, di colleghi che hanno colto l’occasione per “farla pagare” ai loro studenti, riversando nell’esame le frustrazioni di un rapporto educativo non decollato o fallito. Purtroppo un esame a commissione totalmente “interna” ingenera anche queste spiacevoli situazioni.
Torna, allora, la domanda: perché celebrare questo rito in queste condizioni, con queste regole-non regole, raffazzonato all’ultimo momento, affidato alla creatività dei singoli interpreti? Per dare a ragazzi usciti da un anno scolastico disastrato la possibilità di vivere il loro rito di passaggio, con tanto di “Notte prima degli esami” da cantare, senza distanziamento sociale, sotto le stelle, o fare festa al termine e insomma per restituire loro una parvenza di scuola? Forse l’esame è servito a questo. Forse è stato un risarcimento per studenti che tutti definiscono “fortunati”, perché tutto è stato per loro probabilmente più facile, ma che si porteranno lo stigma di essere la generazione della Maturità 2020, quella coi voti troppo alti e falsati, quelli della didattica a distanza, quelli “aiutati”. Non so davvero, in fin dei conti, che fortuna possa essere la loro.
Tutto negativo, allora? No, certo. Nonostante tutto, resta la bellezza di aver visto letteralmente fiorire degli studenti, di vederli sinceramente impegnati (almeno alcuni) e coinvolti in quello di cui parlavano; restano i loro sorrisi o le loro lacrime al termine del colloquio, che esprimevano gratitudine e riconoscenza per anni vissuti in modo significativo. Resta lo stupore di fronte a qualcuno che capisci di non aver capito bene, o che desidereresti aver conosciuto meglio. Resta l’aver toccato con mano come su quei banchi di scuola alcuni hanno intravisto la loro vocazione, l’obiettivo, il sogno della loro vita.
Questo c’è stato, nonostante le scelte sbagliate, le approssimazioni delle circolari, le navigazioni a vista. Insomma, il bicchiere resta piuttosto vuoto, ma come al solito la bellezza di un rapporto umano salva da decisioni verticistiche; la bellezza di un rapporto che solo chi sta in trincea tutti i giorni con i ragazzi riesce ad apprezzare. E che in un breve colloquio che va a finire in un voto riesce ad esprimersi con difficoltà.