“Noi non faremmo mai guidare su strada a un bambino di 11 anni un’automobile, neppure sapendo che l’evoluzione tecnologica l’ha resa estremamente sicura; invece mettiamo in mano a bambini di 8 o 9 anni strumenti di enorme complessità (lo smartphone, ndr) che talvolta neppure un trentenne sa usare e gestire bene dentro la propria vita”. Con questo interessante paragone, proposto dallo psicoterapeuta dell’età evolutiva Alberto Pellai, riprendo il discorso sull’uso delle tecnologie digitali a scuola iniziato l’8 settembre. Come già detto in quella sede, il punto di riferimento per questo mio lavoro sono due incontri svoltisi durante il Meeting di Rimini.



Nell’articolo precedente accennavo alle “enormi potenzialità positive” cui si rischia di rinunciare limitandosi a vietare l’uso dello smartphone a scuola. Quali potenzialità? Provo ad accennare una risposta con qualche esempio pratico. Immaginiamo di trovarci di fronte ad una parola strana e sconosciuta. Una volta avremmo dovuto alzarci dalla poltrona in cui ci eravamo appena accomodati, prendere dalla libreria un pesantissimo vocabolario, sfogliarlo fino a trovare la parola che cercavamo e leggere l’infinità dei suoi possibili significati per trovare quello giusto. Oggi estraiamo dalla tasca un apparecchietto grande come un pacchetto di sigari, digitiamo la parola misteriosa in uno spazio apposito del suo schermo e in due secondi otteniamo una cascata di risposte anche più corposa di quella del pesante volume.



Oppure: un compagno o compagna è assente proprio nel giorno di una lezione importante; fotografiamo con lo smartphone la lavagna o la pagina di quaderno con gli esercizi e gli appunti e in due secondi glie la spediamo a domicilio. Magari, mentre l’insegnante è ancora in aula ci arriva un suo messaggio con richieste di chiarimenti su concetti che credevamo di aver capito e invece non era vero. All’istante giriamo il quesito al prof, se non ha provveduto direttamente a inviarglielo il compagno da casa. Una volta avremmo dovuto andare a casa sua al pomeriggio, fargli copiare gli appunti a mano intanto che lui/lei ci offriva qualcosa da bere, aspettare che se li studiasse e formulasse la richiesta di chiarimento al prof, magari alla lezione successiva, due giorni dopo …. Potrei inventare un’infinità di altri esempi del genere. Mi limito a considerare un aspetto non proprio trascurabile. In un apparecchio grande e pesante come un singolo libro si possono immagazzinare un’infinità di testi, foto, filmati, registrazioni audio. Il costo di un tablet con queste potenzialità è paragonabile a quello dei libri di testo di un singolo anno scolastico: la sua utilità però si può estendere almeno a tutto un ciclo scolastico.



È il tema della digitalizzazione della scuola, su cui lo studioso di tecnologie digitali Luca Botturi, nell’incontro del Meeting su Social e intelligenza artificiale: non serve lo schermo per crescere smart ha sostenuto che è bene digitalizzare a condizione che la tecnologia mantenga la sua natura di strumento e non diventi il “fungo” che occupa tutta la mente. Per scrivere un testo, per comunicare, il digitale è utile ma bisogna preservare degli spazi in cui coltivare le abilità che la tecnologia tende a coprire; Botturi ha citato come esempi sostenere un colloquio, passare il tempo con gli amici senza chiuderci nella nostra stanza. Sull’idea di togliere gli smartphone agli studenti ha detto che può essere utile solo se le famiglie collaborano con le scuole, altrimenti queste ultime diventano i “lager” che impediscono ai ragazzi di usare il telefonino.

Su questi temi secondo Botturi occorre una formazione dei docenti. “Digitalizzare non è riempire le scuole di dispositivi” ha detto fra l’altro, parlando di “sbornia digitale” negli anni passati: “Ora – ha aggiunto – dobbiamo decidere cosa vogliamo ottenere dalle tecnologie che abbiamo in tasca”. Cosa voglio ottenere per i miei alunni ed alunne? Aiutarli a sviluppare determinate abilità che il digitale può accrescere, se usato bene. Ad esempio: la capacità di rielaborare personalmente i contenuti, agevolata dai programmi di elaborazione testi e creazione di slides; la capacità di ordinarli in base a categorie precise; la capacità di impostare correttamente i problemi, agevolata ad esempio dai fogli di calcolo: la voglia di approfondire gli argomenti di studio, che l’impiego dei mezzi multimediali può stimolare, rendendo tutto più interessante. Sono solo alcuni esempi.

E l’intelligenza artificiale?  Io sono per certi versi un insegnante “vecchio stampo” ed ho condiviso una frase pronunciata da Fabio Mercorio, professore ordinario di AI e Data Science all’Università di Milano-Bicocca, sempre al Meeting. “Cosa mi impegno a fare se una macchina fa le stesse cose meglio di me?”. In effetti vedere quello che è in grado di fare un programma di computer oggigiorno mi fa nascere immediatamente una preoccupazione; a scuola devo verificare e valutare il lavoro dei miei alunni, non quello di ChatGPT. Sicuramente ciò comporta tempi più lunghi e una maggior fatica nel modo di impostare le verifiche. Anziché cercare modi per impedire agli alunni di usare l’intelligenza artificiale, io preferisco in ogni caso partire dal suo uso autorizzato e governato dall’insegnante. Non problema, ma risorsa.

Poi, per fare correttamente le verifiche, dovrò utilizzare metodi che implichino il lavoro di rielaborazione, di comprensione, di applicazione delle conoscenze alla risoluzione di problemi pratici, in modo tale che anche l’uso dell’AI diventi costruttivo di competenze per gli studenti. Facile a dirsi, molto meno a farsi. È l’ennesima avventura stimolante.

Concludo con un’affermazione di Mercorio che mi sembra indicare il compito per noi adulti; è rivolta ai genitori ma va benissimo anche per gli insegnanti. “Dobbiamo sentire la responsabilità di accompagnare i nostri figli, avendo noi i criteri di giudizio per offrirli a loro, altrimenti daremo delle competenze destinate ad essere superate in pochi anni”.

(2 – fine)

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