Il libro di Anna Maria Poggi, Per un «diverso» Stato sociale. La parabola del diritto all’istruzione nel nostro Paese (Il Mulino, Bologna 2019) è una “miniera” di suggestioni interdisciplinari. Soprattutto di sociologia e statistica sociale, di storia del sistema scolastico, di diritto e storia del diritto costituzionale. Percorrerle non tutte, ma anche solo in parte avrebbe bisogno di uno spazio che non si combina con quello di una pur lunga recensione.



L’Introduzione e i suoi cinque capitoli, tuttavia, costituiscono l’occasione per focalizzare un fenomeno difficile e complesso che ha coinvolto sia gli attori front e back office delle politiche formative dell’Italia repubblicana sia, purtroppo, le ultime generazioni che le hanno subite, spesso come semplici passive comparse eteroguidate. Si tratta dell’anosognosia ideologica.



Infatti, così come l’emiplegico che è afflitto da questa sindrome è incapace di percepire le paresi dei propri arti, allo stesso modo chi è stato ed è ostaggio di “cornici” e pre-giudizi ideologici tipici delle visioni del mondo che si sono combattute nel novecento non è cosciente della sua cecità dinanzi alla realtà dei fatti. Anzi, pensa addirittura di essere presbite e di poter e dover guidare gli altri che lui considera ciechi verso le astratte mete luminose che ha in testa, senza accorgersi per di più del loro anacronismo, della loro infondatezza e della loro illusorietà.



Cosicché i virus dei corti circuiti ideologici penetrati nella mente comune tra ottonovecento, virus che dovrebbero essere stati sconfitti da molti decenni, continuano invece ad ingrossarsi e a serpeggiare negli angoli più riposti di decisori politici, operatori sociali e imprenditoriali, intellettuali, giornalisti, sindacalisti, docenti, rendendoli incapaci di valutazioni e scelte adatte alla sfida dei tempi. Soprattutto, poi, di assumere linee riformatrici sempre più necessarie. Fino a voler invece ossessivamente riproporre come “magnifici e progressivi” gli stessi farmaci (le stesse logiche di intervento) che hanno dimostrato da tempo la loro inefficacia per curare le malattie che pur si deprecano.

Alcuni esempi che il libro non tematizza in quanto tali, ma che comunque squaderna per ogni lettore.

1. L’espressione “obbligo scolastico”, anche per il suo sapore concettuale poco “liberale” e, in quanto manifestazione di imperium, ovvero dell’opposto all’idea classica di scholé, non è mai penetrata nella normativa italiana. Fa eccezione soltanto l’art. 68 della legge 17 maggio 1999, n. 144 frutto della stagione della cosiddetta “concertazione” con le parti sociali, dove si distinse tra “obbligo scolastico” (allora fino a 14 anni) e “obbligo formativo” (fino a 18). Al contrario, sempre, dalla Casati (1859) in avanti, si è parlato di “istruzione obbligatoria” per tre anni (legge Coppino, 1877), sei anni (legge Orlando, 1904), otto anni (riforma Gentile, 1923; art. 34 della Costituzione italiana, 1948), nove anni (legge Berlinguer, n. 9/1999), dieci anni (legge finanziaria 296/2006 e successivo regolamento Fioroni). Perfino l’art. 731 del Codice penale redatto durante il Fascismo ma ancora vigente non parla di “obbligo scolastico”, ma recita che chiunque “rivestito di autorità o incaricato della vigilanza sopra un minore omette, senza giusto motivo, d’impartirgli o di fargli impartire l’istruzione [elementare] è punito con l’ammenda”.

Sul piano del diritto formale, dunque, è sempre stata chiara un’ovvietà: obbligatoria è l’istruzione dei nostri giovani, ossia ciò che essi, tramite la cultura, sono chiamati a sapere e saper fare in maniera critico-riflessiva ed operativa, non tanto l’andare a scuola in quanto tale. La frequenza della scuola è un obbligo, infatti, se e solo se è il mezzo migliore per il fine “istruzione” di ciascuno, nessuno escluso, non in sé. Per riprendere l’ultimo paragrafo del volume, il dovere di istruirsi insomma, da “paziente” (cioè passivo e ricevuto), deve essere interpretato e declinato come “agente” (cioè attivo e generato dal soggetto (per usare il Sen più volte richiamato nel libro, che a sua volta rimanda a San Tommaso e Aristotele). Nessuno, del resto, apprende se non vuole, se non si mette in gioco non solo con la propria mnemotecnica ma con tutta l’unità personale di mani, cuore e mente di cui è capace.

Eppure anche oggi non si trova documento amministrativo o rivendicazione politica e sindacale o perfino giurisprudenziale dove non si parli di “obbligo scolastico” e non si richieda di estenderlo fino a 18 anni. In verità, il costituzionalista Giorgio M. Lombardi già nel 1967 aveva spostato l’accento dall’ “obbligo scolastico” di cui si parlava al “dovere di istruzione”. Infatti, se lo Stato (art. 33, comma 2 della Costituzione) ha l’obbligo di istituire scuole di ogni ordine e grado su tutto il territorio nazionale proprio per garantire l’istruzione a e di tutti i cittadini, per converso ogni cittadino ha il dovere di voler imparare, mettendocela tutta per sé e per il bene sociale (art. 4 della Costituzione: ogni cittadino ha “il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”). Su questa linea, del resto, si erano già indirizzati, dal 1956, tutti i più accreditati costituzionalisti (citati nella nota 34 di p. 236).

Come si spiega, allora, che quando la legge n. 53/2003 introdusse, al posto dell’espressione “obbligo scolastico”, quello di “diritto dovere di istruzione e formazione fino a 18 anni” partiti, sindacati dei docenti, docenti, intellettuali e mass media gridarono all’attentato dei diritti costituzionali?  Al punto che si richiese a gran voce la reintroduzione della dizione “obbligo scolastico”? Non è forse vero che, fermo il disposto dell’art. 34, comma 2 della Costituzione (“l’istruzione … è obbligatoria e gratuita”), gli alunni non devono semplicemente adempiere “l’obbligo di andare a scuola”, ma che, se hanno da un lato il diritto incomprimibile di istruirsi fino a 18 anni, dall’altro lato hanno anche il dovere inderogabile di essere, con i genitori, protagonisti diretti di quel diritto proprio in nome del dovere di solidarietà sociale a cui sono tenuti in base all’art. 4 comma 2 della Costituzione? Non è che, forse, proprio quest’ultima consapevolezza si è persa nei decenni successivi agli anni settanta, tradendo non solo il significato delle parole, ma il modo comune di agire e di pensare dei singoli e della nostra società?

2. L’Introduzione (22 pagine) che Anna Maria Poggi premette ai cinque capitoli del suo libro è una fotografia impietosa delle malattie di cui soffre il nostro sistema di istruzione e formazione: siamo ai primi posti nella Ue per dispersione scolastica e universitaria; per Neet (quasi il 20% dei giovani dai 15 ai 24 è inattivo, cioè non sono né in formazione né al lavoro! Una percentuale ancora maggiore per i 18-34enni); per posti di lavoro disponibili (circa 1.800.000) che si riescono però a coprire solo a meno della metà perché mancano giovani con le competenze necessarie per occuparli; per i divari territoriali (tra il Nord e il Sud) purtroppo sempre aumentati e mai diminuiti; per competenze di lettura matematica e scienze; per illegalità diffusa e civismo carente; per disoccupazione e sotto occupazione giovanile e adulta.

Non solo: siamo agli ultimi posti anche per scuola e università intese, in generale, come ascensore sociale e, in particolare, come occasione indispensabile per “l’elevazione professionale” dei lavoratori, che, peraltro, dovrebbe essere garantita a tutti dall’art. 35, comma 2 della Costituzione. E lo siamo a due livelli: a) perché da noi i titoli di studio sono gusci vuoti: più etichette formali di distinzione sociale che garanzia di effettive competenze da spendere non sul divano di casa o in birreria, ma nel lavoro; b) perché, da noi, chi comincia con un certo tipo di lavoro, ancora oggi, 2020 globalizzazione e 4.0 imperanti (non 1961, quando Ermanno Olmi produsse il suo mitico film Il posto), non solo ha come massima aspirazione di svolgerlo fino alla pensione, ma, anche se non l’avesse, non troverebbe una rete istituzionale, aziendale e extra aziendale, in grado di motivarlo e incentivarlo con continuità a “innovare” il suo stesso lavoro, migliorandolo verso l’alto per complessità e/o cambiandolo, se obsoleto in quanto fuori mercato o, a maggior ragione, se incompatibile con i valori di compiutezza umana, propria o sociale e civile, a cui ogni cittadino responsabile deve mirare per sé e per gli altri. 

Non occorre molto, dunque, per capire che una situazione di questo genere non nasce in pochi decenni. Ha per forza ragioni strutturali e di lunga durata. Se la “lotta” sempre ribadita fino alla nausea (soprattutto prima delle elezioni) contro questi fenomeni è stata, nonostante le buone volontà, fallimentare negli ultimi 50 anni dovremmo tutti essere convinti che il difetto non è più congiunturale, ma di sistema.

Perché, ad esempio, mantenere ancora in piedi un impianto scolastico tuttora improntato alla meritocrazia novecentesca, fordista, elitaria e socialmente iniqua? Dobbiamo forse vantarci che 100 ragazzi partano nella scuola primaria e soltanto 26 arrivino all’università e 2 alla cosiddetta istruzione terziaria di Ifts e Its? Sarebbero questi i “cervelli” migliori, e perciò meritevoli, che abbiamo, fra l’altro senza più poterli “selezionare” su una platea di 1.100.000 nati all’anno ma sul misero numero da collasso demografico di 420.000? Che senso può avere, in questo contesto, continuare a ritenere il liceo classico e gli altri licei come le scuole per gli “eccellenti” e gli istituti tecnici, gli istituti professionali, i cfp e l’apprendistato formativo destinati, in rigoroso ordine di graduatoria discendente, ai “sempre meno eccellenti, fino agli scarti”?

Non è che, in questo modo, abbiamo semplicemente scambiato la voluta distopia di Michael Young (1958) per utopia democratica, se non addirittura pedagogica? E abbiamo dimenticato che la meritocrazia darwiniana, se può funzionare con gli animali e i robot, è cosa ben diversa dalla meritorietà che abbiamo invece il dovere di riconoscere ad ogni essere umano? Abbiamo dimenticato, nella nostra riduzione scolasticistica, che le eccellenze di ogni giovane, nessuno escluso, sono sempre analoghe e differenti e mai univoche e uniformi non solo al livello di istruzione secondaria ma anche superiore, e per di più non solo a livello scolastico ma anche economico-sociale, di “popolo”? (Molto interessanti, in questo senso, le analisi condotte sul nuovo concetto democratico di élite dagli Amici di Marco Biagi in Popolo ed élite. Come ricostruire la fiducia nelle competenze, Marsilio, Venezia 2019).

Oppure, ancora, non si è patetici, oggi, epoca della complessità interdisciplinare, a mantenere come nulla fosse la parcellizzazione disciplinare che contraddistingue le nostre scuole dalla primaria all’università, formazione dei docenti compresa? Invece no. Niente. Almeno avessimo avuto un riformismo omeopatico, sì, ma coerente, graduale e continuo. Invece ancora una volta no. Soltanto un succedersi di provvedimenti scaturiti non da visioni ma da mediazioni manutentive dell’esistente, spesso tra loro in contraddizione. Nemmeno ad eliminare il doppione istruzione professionale di Stato e istruzione e formazione professionale regionale (già disposta per legge nella n. 53/2003) siamo riusciti a far accettare ai nostri anosognosti ideologici. Con il risultato, per usare le parole di Poggi, che lo Stato sociale italiano, a riguardo di istruzione e formazione, invece di essere Stato di effettiva promozione di ciascuno (come Costituzione formale avrebbe voluto e ancora vorrebbe) è rimasto soprattutto di assistenza; invece che di qualità ha scambiato questo principio per mera offerta di sempre più grandi quantità (di docenti, di ore, di discipline…); invece di “governare” il sistema scolastico, stabilendo i fini con chiarezza, lasciando la responsabilità alle istituzioni scolastiche e quindi ai docenti di trovare liberamente i mezzi per promuoverli, ha voluto allo stesso tempo “governare e gestire” l’intero processo, allestendo l’imponente burocrazia tecnica e giudiziaria autoreferenziale che abbiamo, per forza di cose tendente all’immobilismo; invece di “controllare” nel merito il raggiungimento dei fini ha finito per scambiare questo importantissimo compito per un “controllo paralizzante di procedure amministrative e di sentenze di giudici amministrativi”.

3.  Il libro non tematizza in modo specifico il problema della parità economica tra chi frequenta le scuole paritarie e le scuole statali (costi standard, doti scuola, convenzioni). Eppure pone tutte le condizioni per riconoscere il principio che la parità solo giuridica vigente (legge 62/2000) è necessaria ma per niente sufficiente per quell’uguaglianza educativa a cui mira uno Stato sociale degno di questo nome. Come se si fossimo ancora nel cono d’ombra delle polemiche otto-novecentesche tra laici e cattolici, tra Stato e Chiesa, tra scuola statale, l’unica definita illuministicamente “pubblica”, e scuola non statale, chiamata anche con un certo sussiego spregiativo “privata”; e come se non si fosse ancora compreso, a 72 anni dalla Costituzione formale, o forse proprio perché ci sono stati 72 anni di diversa Costituzione materiale, che non ci può essere “libertà positiva” per i soggetti e “Stato sociale” per la collettività nazionale senza questo ulteriore passo che, purtroppo, resta ancora di là da venire. Del resto, come tanti altri provvedimenti altrettanto urgenti per non incrementare il preoccupante declino sociale e quindi anche economico, culturale e morale imboccato dalla fine degli anni ottanta del secolo scorso dal nostro Paese. Il perché di questa condizione da “ilarità degli abissi” è la solita: l’anosognosia ideologica che ancora ci affligge.

Senza evocare i Tocqueville, gli Sturzo, i Moro, i La Pira, infatti, chi solo ragiona con il buon senso deve ammettere l’impossibilità di ottenere Stato sociale così come auspicato nel libro senza che esso possa preliminarmente poggiare su una societas ricca e articolata al proprio interno, e con quante più “formazioni sociali” possibili nelle quali ciascuno svolga, ben accompagnato da chi riconosce magister, la sua personalità (art. 2, comma 2 della Costituzione).

Nessuna “formazione sociale” può durare nel tempo e svolgere la sua funzione costituzionale, tuttavia, senza allo stesso tempo uno Stato sociale che, da un lato, non avvalori e coltivi la fiducia e l’amicizia (philia) che spingono gli uomini alla relazione interpersonale cooperativa. Esattamente il contrario di uno Stato hobbesiano che fondi se stesso sul potere delle leggi e sulla paure che esso devono incutere per domare uomini inclini per natura all’homo homini lupus. Dall’altro lato, senza uno Stato che esalti l’esercizio della libertà e della responsabilità delle “formazioni sociali” nel promuovere “istituzioni” per soddisfare il diritto dovere di istruzione e per aumentare, di conseguenza, ciò che, con espressione riduttiva, si è chiamato il “capitale sociale”.

Il sistema scolastico e formativo, in questa direzione, è un formidabile reattore di energia civile, sociale, etica, culturale ed educativa se, e solo se, è espressione concreta della libertà e della responsabilità civili, sociali, etiche, culturali ed educative, generate e praticate dai singoli e dalle “formazioni sociali”, e non da “im-piegati” di uffici amministrativi che regolano il loro agire sulla base di procedure per loro natura astratte, omologanti e burocratiche. La libertà e la responsabilità dei singoli e delle societates da loro costituite sono, d’altra parte, come i muscoli: dimensioni che, se non trovano occasioni di adeguato ingaggio, si atrofizzano nel tempo, abituando al rammollimento morale, all’eteronomia e all’irresponsabilità delegante.

Ciò che vediamo peraltro ogni giorno attorno a noi, dove alla philia interpersonale si è sostituita quella virtuale dei social network e dove gli enti intermedi (le “formazioni sociali” della Costituzione) sono stati dissolti o sono di continuo aggirati a vantaggio di un preteso rapporto diretto tra singoli individui e leader dello Stato o della sua amministrazione. Come si fa a non giungere quanto prima alla piena parità economica tra scuole statali e non statali, in questo clima?