Quanti controlli sono stati fatti sulle spiagge spensieratamente stipate di cui abbiamo visto le immagini per tutta l’estate? A quanti assembramenti hanno messo fine le forze dell’ordine nelle strade e nelle piazze della movida? Quanti ragazzi sono stati almeno rimproverati e invitati a mantenere le debite distanze all’uscita delle scuole?



Sappiamo bene che quasi nulla è stato fatto per far rispettare regole appena stabilite, di cui a parole il governo ha continuamente ribadito l’importanza. È, del resto, la più nota e rovinosa tara della nostra cultura istituzionale quella di trasformare obblighi e divieti in esortazioni. Così facendo si evita di ricorrere a una virtù essenziale in democrazia, la fermezza, cioè la capacità di far rispettare la legge nell’interesse della comunità, anche quando questo può sembrare politicamente costoso – e costoso psicologicamente per chi in concreto deve operare sul campo. Fra parentesi: non è certo un caso che i sindaci (o i presidi…) che cercano di andare contro questa corrente vengano subito soprannominati “sceriffi”; come se lo sceriffo non avesse rappresentato l’unica alternativa alla legge del più forte, il tentativo di far vivere un minimo di legalità nella comunità a lui affidata.



Su cosa conta allora lo Stato che tralascia la frequenza e la severità dei controlli, al di là dei richiami al “senso di responsabilità” dei cittadini? Sull’aumento delle sanzioni. Che di recente sono salite, per il mancato uso delle mascherine, da un minimo di 400 fino a un massimo di 1000 euro. È una classica grida manzoniana, cioè il completo ribaltamento di quanto raccomandava Beccaria: non è tanto l’entità, ma la certezza della pena a scoraggiare i comportamenti vietati. Qualcuna di queste multe verrà fatta, ma c’è da scommettere che in genere l’importo eccessivo servirà solo ai tutori dell’ordine per giustificare ai propri occhi la loro indulgenza di certo già raccomandata ad abundantiam dalle alte sfere della pubblica sicurezza.



Le conseguenze si leggono nei dati sempre più preoccupanti di questi giorni sull’ascesa dei “positivi”, in particolare quelli relativi a Milano, la città più colpita a causa del numero dei suoi abitanti, di quello delle imprese (306 mila) e dei visitatori, in altre parole dell’ampiezza delle relazioni sociali. Tra gli altri colpisce in particolare il 17% dei contagiati tra i 20 e i 29 anni, cioè quei giovani che abbiamo ampiamente incoraggiato a sentirsi intoccabili dal virus, lasciando che si intruppassero nella movida; a conferma, un altro 17% ha tra i 30 e i 39. Dobbiamo per questo ringraziare chi ha anteposto il “diritto a divertirsi” a quello – senza virgolette – alla tranquillità e alla salute dei residenti e all’imperativo di combattere una malattia che ha già ucciso oltre 36mila nostri concittadini.

Sappiamo infine che il laissez faire laissez passer che contraddistingue – come ha scritto Ernesto Galli della Loggia “una popolazione tra le più ineducate del continente, con una scarsa propensione alla civile convivenza […] e con un’ancora più scarsa attitudine ad obbedire alle regole e ai comandi dell’autorità” è in sintonia con le concezioni educative diffuse da decenni nelle famiglie e nella scuola. Fra l’una e le altre c’è naturalmente uno scambio di influenze negative che indeboliscono sempre di più la convivenza civile. Ma l’idea che le sanzioni siano l’opposto dell’educazione e vadano quindi evitate non ha nessun fondamento psicopedagogico e serve solo, purtroppo, per sentirsi buoni a buon mercato.

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