Ma così vince solo la burocrazia. A scorrere la bozza della “Riforma della formazione iniziale e continua e reclutamento degli insegnanti”, che dovrebbe essere posta all’attenzione del Consiglio dei ministri giusto oggi (ma i tempi, vista l’indisposizione causa Covid del presidente Draghi, potrebbero slittare) sorge spontanea una domanda: davvero per accedere a una cattedra occorre mettere in piedi tutta questa complessa macchina organizzativa? Percorso universitario e accademico abilitante con prova finale comprensiva di lezione simulata e raggiungimento di almeno 60 crediti formativi, concorso pubblico nazionale, periodo annuale di prova, contratto annuale a tempo determinato part-time, istituzione della Scuola di alta formazione che “promuove e coordina la formazione in servizio dei docenti”, cinque gradi di aggiornamento permanente per la durata complessiva di ventiquattro anni, ciascuno dei quali si conclude con una verifica.



Tutto ciò, si legge all’articolo 1, “al fine di potenziare la formazione iniziale dei docenti delle scuole secondarie basandola su un modello formativo strutturato e raccordato tra le università, le istituzioni dell’alta formazione artistica musicale e coreutica e le scuole, idoneo a sviluppare coerentemente le competenze necessarie per l’esercizio della professione di insegnante, nonché per dare attuazione alla riforma della formazione dei docenti prevista nel Piano nazionale di ripresa e resilienza, è introdotto un percorso universitario e accademico di formazione iniziale, abilitazione e accesso in ruolo dei docenti di posto comune, compresi gli insegnanti tecnico-pratici, delle scuole secondarie di primo e secondo grado”. Un unico periodo lungo la bellezza di otto righe non lascia ben sperare circa il seguito, che infatti è stato subito messo nel mirino da alcuni partiti (Lega e Movimento 5 Stelle in testa), sindacati, organizzazioni dei docenti precari che accusano, in sostanza, il ministro Bianchi di voler riproporre un sistema di reclutamento farraginoso e penalizzante.



Mi limito qui a due osservazioni di macroscopica evidenza sfuggite alle dichiarazioni rilasciate nelle ultime ore da politici, insegnanti e sindacalisti contrari alla riforma. Trovo aberrante che la verifica finale pensata per ognuno dei cinque livelli di formazione e aggiornamento possa avvenire tramite “valutazione del miglioramento dei risultati scolastici degli alunni degli insegnanti che accedono al percorso”. Il motivo è semplice: si aggirerà l’ostacolo alzando i voti. Cosa che già accade ovunque da quando è invalsa la pessima abitudine di paragonare il rendimento in italiano, matematica e lingue straniere a quello degli altri Paesi europei, presi chissà perché (l’esterofilia è un virus di cui l’italiano medio soffre da sempre) ad esempio.



Lo scrivo per esperienza personale: i dirigenti convocano i collegi docenti, spiattellano i risultati negativi di questa o quella classe, li confrontano con altri dentro e fuori l’istituto e poi tirano le orecchie ai docenti che “non sono stati capaci” di elevare il livello di apprendimento degli alunni: “Se viene un’ispezione, che figura facciamo?”, mi sono sentito dire già qualche anno fa. Ovvio: “La figura di un corpo docente non all’altezza e, di conseguenza, caleranno le iscrizioni”. Un vero e proprio dramma che consente una sola via di uscita: voti alti e promozioni a gogo.

Il bello è che solo il passaggio da un grado all’altro consentirebbe di raggiungere la “progressione salariale” ad oggi legata in modo esclusivo – ed è un grosso limite – all’anzianità di servizio. C’è quindi da scommettere che si troverà il modo di non rinunciarvi…

La seconda osservazione deriva ancora dal punto 1 della bozza. Al comma 2 si legge: “Il percorso di formazione iniziale, selezione e prova, in particolare, ha l’obiettivo di sviluppare e di accertare nei futuri docenti: a) le competenze culturali, disciplinari, didattiche e metodologiche, rispetto ai nuclei basilari dei saperi e ai traguardi di competenza fissati per gli studenti; b) le competenze proprie della professione di docente, in particolare pedagogiche, relazionali, valutative, organizzative e tecnologiche, integrate in modo equilibrato con i saperi disciplinari; c) la capacità di progettare percorsi didattici flessibili e adeguati al contesto scolastico, al fine di favorire l’apprendimento critico e consapevole e l’acquisizione delle competenze da parte degli studenti; d) la capacità di svolgere con consapevolezza i compiti connessi con la funzione docente e con l’organizzazione scolastica”. In pratica, lo Stato dovrebbe chiedere a chi ha appena terminato il percorso universitario (anzi, non ancora, perché gli manca la prova finale) di sapere già come si insegna: le competenze culturali, certo, ma anche quelle legate alla propria disciplina, alla didattica, alla metodologia, alle competenze degli studenti; deve sapere di pedagogia, e va bene, ma anche di relazioni, valutazioni, organizzazioni, tecnologie per di più “integrate in modo equilibrato con i saperi disciplinari”.

Non è tutto. Deve anche saper progettare percorsi didattici “flessibili e adeguati al contesto didattico” senza tener conto che di contesti didattici ne esistono a decine, puntare all’apprendimento “critico e consapevole” quando è noto come la gran parte degli allievi fatica persino a cogliere il valore dell’apprendimento-base. Tutto senza aver mai messo piede (docenti precari a parte, per i quali è comunque previsto un ritorno in università: significa che il lavoro svolto sino a quel momento era inadeguato?) in un’aula scolastica.

La proposta di legge ignora, dunque, che la gran parte di tali requisiti – che si vorrebbero valutare asetticamente attraverso il giudizio di una commissione d’esame – può essere fatta proprio solo attraverso l’esperienza e che soltanto dopo anni di lavoro si può sperare di raggiungere.

Al ministero volano ancora una volta alto, troppo alto per vedere cosa accade davvero nelle singole scuole del Bel Paese.

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