Lettera a una professoressa non dedica neppure un paragrafo, esplicitamente, ai docenti, intesi come categoria professionale. Addirittura si precisa che il libro, frutto dell’elaborazione dei ragazzi di Barbiana guidati da don Milani, “non è scritto per gli insegnanti, ma per i genitori”, perché imparino a organizzarsi e creino “il sindacato dei babbi”. Ma, se è pur vero che l’intento dello scritto è quello di favorire una presa di coscienza di questi ultimi, ciò nondimeno ha come interlocutore, appunto, una professoressa.
Gli insegnanti, dunque, sono chiamati in causa costantemente, in un dialogo crudo, costruito con parole semplici di nitidezza adamantina e spesso acuminate. Don Milani non fa sconti con la sua logica impietosa verso i potenti, a favore degli ultimi. Per lui quel che conta è la difesa dei poveri e il loro diritto all’istruzione, ben aldilà della politica che, quando viene menzionata, lo è con toni critici o di esecrazione. Ma all’interno della sua visione, che è e rimane sostanzialmente religiosa, la “professoressa” e con lei tutti i suoi colleghi dei vari ordini di scuola non fanno una bella figura. Forse, aldilà dell’agiografia politica che tutt’oggi costruisce le sue retoriche sul modello di Barbiana, attualizzare il suo pensiero, distinguendo “ciò che è vivo e ciò che è morto”, significa proprio parlare della categoria dei docenti.
Il problema di fondo per don Milani è quello delle bocciature, che escludono dall’istruzione la massa dei diseredati: “la scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde”. In questa prospettiva, il discorso si indirizza agli insegnanti, i quali purtroppo, in questo universo dicotomico che comprende i ricchi e i potenti da un lato e la massa dei poveri, particolarmente dei contadini analfabeti, dall’altro, stanno dalla parte dei primi e operano quella selezione iniqua. La bocciatura o la “non promozione”, come si dice oggi in modo edulcorato, ha effetti sociali devastanti ed esclude una parte consistente della popolazione dalla cultura e dalla possibilità di emancipazione sociale.
Si rivolge, quindi, agli insegnanti e difende i bocciati: “(…) gli unici incompetenti di scuola siete voi che li perdete e non tornate a cercarli”. Più avanti: “bocciare è come sparare in un cespuglio. Forse era un ragazzo, forse era una lepre. Si vedrà a comodo”. Aggiunge che, nonostante le raccomandazioni, anche giuridiche, “la maestrina” non si pone tanti problemi: “boccia e parte per il mare”. Quanto ai professori, essi, invece di cercare di rimuovere gli ostacoli sociali, “fanno ripetizioni a pagamento”. Dunque “la mattina sono pagati da noi per fare scuola eguale a tutti. La sera prendono denaro dai più ricchi per fare scuola ai signorini”. Anche i loro orari di lavoro sono oggetto di critica. Nel corso di un dibattito pubblico, un insegnante, di fronte a una platea di genitori operai, si lamenta del suo orario di ben diciotto ore settimanali: “cinquanta sguardi impenetrabili lo fissavano in silenzio”. Qualche docente sindacalizzato propone uno sciopero. Don Milani commenta: lo sciopero “è un diritto sacro del lavoratore. Ma con l’orario che fate il vostro sciopero fa schifo”.
Lettera a una professoressa è stato pubblicato nel 1967 e da allora i cambiamenti intervenuti nella società italiana sono stati molteplici. Al netto di essi, è il caso di rimarcare che il tasso di abbandoni scolastici è ancora oggi elevato, in termini comparativi europei. Infatti, l’abbandono scolastico precoce, che riguarda i giovani tra i 18 e 24 anni (quelli che hanno completato solamente la scuola media), nel 2021, era del 12,7%.
Dunque, al di là dei decenni trascorsi, il problema mantiene una pressoché inalterata attualità e si inserisce in una trama di elementi che compongono un quadro complesso di concause. Certamente occorrerebbe favorire lo sviluppo dell’autonomia scolastica, tutt’oggi affievolita dalla permanenza di tendenze ministeriali centralistiche. Senz’altro sarebbe necessario rivedere la governance delle scuole, che risale quasi a cinquanta anni fa (ai decreti delegati del 1974) e rappresenta un modello obsoleto. Una maggiore efficienza delle scuole potrebbe contrastare la dispersione scolastica. Tuttavia, fra le tante riforme auspicabili, c’è da mettere in conto anche quella relativa alle funzioni dei docenti.
Il ruolo degli insegnanti, infatti, è avviluppato in una serie di contraddizioni che, a prima vista, paiono disegnare un puzzle insolubile. Il loro orario settimanale è minore di quello dei docenti di altri Paesi, ma il basso stipendio (soprattutto a fine carriera) segna un punto a sfavore della professione. A esso si aggiungono altri elementi negativi, quali il tasso di burocratizzazione crescente e la perdita di prestigio sociale, che è ragione di delusione soprattutto per coloro che sono dediti al lavoro. Tuttavia, quasi con un paradosso logico, nelle varie indagini molti insegnanti si dichiarano soddisfatti, al punto che, se tornassero indietro, rifarebbero la stessa scelta.
I sociologi spiegano questo paradosso con la categoria di “salario invisibile”, che consiste nella disponibilità di alcuni vantaggi impliciti, quali la mancanza totale di una valutazione delle performance (da cui discende indirettamente la sostanziale illicenziabilità), la grande autonomia professionale (nelle scuole superiori si dice che, quando un insegnante chiude la porta dell’aula, fa quello che gli pare), la debole competizione professionale (che ha il pregio di non nuocere a nessuno, ma non stimola al miglioramento) e l’orario di servizio, che impegna non più di mezza giornata. Gli insegnanti, inoltre, possono spostarsi da una scuola all’altra senza vincoli, se solo vi sono posti disponibili.
Il ruolo dei docenti, dunque, è disfunzionale soprattutto per coloro che considerano quella professione come essenziale e prioritaria. Per costoro il “salario invisibile” rappresenta una magra consolazione, a fronte della quale le insoddisfazioni sul piano economico e di sviluppo di carriera sono preponderanti. Quanto contano quei docenti? Poco, anche se nei fatti essi sostengono l’intero sistema scolastico. I sindacati si oppongono a qualsiasi cambiamento di questo dis-equilibrio fondato sull’egualitarismo. Hanno necessità di tessere. Don Milani, a cent’anni dalla nascita, avrebbe qualcosa da dire.
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