“Chi era senza le basi, lento o svogliato si sentiva il preferito. Veniva accolto come voi accogliete il primo della classe. Sembrava che la scuola fosse tutta solo per lui. Finché non aveva capito, gli altri non andavano avanti.” “L’abbiamo visto anche noi che con loro [i ragazzi che non volete] la scuola diventa più difficile. Qualche volta viene la tentazione di levarseli di torno. Ma se si perde loro, la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati” (Lettera a una Professoressa)



Caro direttore,
stanotte non dormivo e così, per ammazzare il tempo, mi sono messa a rileggere Lettera a una Professoressa” di don Lorenzo Milani, libretto che avevo lì, in giro per casa.

Ho creduto per lungo tempo che ormai, nella scuola di oggi, che fa una bandiera dell’inclusione – ossessiva parola che condisce e ricorre in ogni discorso -, le considerazioni di don Milani fossero roba superata. Ma probabilmente sono stata un po’ autoreferenziale, guardando solo il mio stretto circondario, oltre che ingenua, dando per scontato che sempre corrisponda un significato al significante.



Da qualche tempo, con più età e meno miopia, sono costretta purtroppo a rendermi conto che invece troppo spesso “inclusione” è solo “flatus vocis”  (non sempre, per carità, e manco spesso… ma anche già solo “alcune”, “poche” o “pochissime” volte è “troppo spesso”).

D’altronde, “levarsi di torno i malati e curare i sani”, bocciando ingiustamente, non è il solo modo di escludere. Ce ne sono tanti altri, più sopraffini, ma non meno escludenti. Ogni azione didattica che non parta da chi si ha realmente di fronte, dalla sacralità della persona dell’alunno concreto che si ha davanti, compresi tutti i suoi limiti che a volte ci respingono – limiti cognitivi, comportamentali, caratteriali, culturali -, è esclusione. Ogni azione didattica che non assuma e non si faccia realmente carico dell’interezza della persona dell’alunno, con tutto quello che ha sopra le spalle, senza ridurla a una prestazione o a una serie di prestazioni, è esclusione. Ogni azione didattica che parta dal proprio narcisismo culturale, dall’autocompiacimento per le tante nozioni studiate, ostentate e poi richieste ai ragazzi, in una erudita programmazione, è esclusione. Ogni azione educativa che parta dal modello di alunno ideale che si ha in testa, ma che non si ha tra i banchi, è esclusione. Ogni volta che l’“idea” che ho di lui, prevale sulla sua “realtà” tanto da impedirmi di vederla, riconoscerla, accoglierla e abbracciarla, è esclusione. Ogni volta che scegliamo “il più bravo” o “il più responsabile” per un incarico, invece che quello più bisognoso di essere responsabilizzato e valorizzato, è esclusione. Ogni azione educativa che non faccia sentire l’ultimo come il primo, “quello senza le basi, lento o svogliato come il preferito”, è esclusione. Ogni azione educativa che abbandoni il più fragile al suo destino di “perduto in classe” all’interno di una lezione per lui incomprensibile, irraggiungibile o dentro un compito per lui inabbordabile, è esclusione. Ogni volta che, con le nostre discipline, non facciamo di tutto per intercettare lo sguardo e il cuore dei nostri ragazzi, anche e soprattutto di “quello che non vorremmo”, è esclusione.



E per quel che riguarda me, potrei aggiungere, come memento: ogni volta che non guardo al mio “peggior” alunno, quello che mi toglie la pazienza e mi pesa più degli altri, come guardo a mio figlio, con la stessa compassione, con la stessa comprensione, con la stessa attenzione, con lo stesso impegno, con lo stesso “tifo” e con lo stesso amore al suo Destino, è esclusione. Ogni volta che non vedo in lui, chiunque egli sia, il Volto stesso di Cristo, è esclusione.

Buon PEI e PDP a tutti. A noi insegnanti e a tutti gli alunni, soprattutto a quelli, per mille motivi diversi, più fragili.

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