Leggere è come tirare una pietra nell’acqua: se è profonda, si diffondono tanti bei cerchi concentrici; se è una pozzanghera, la pietra muore lì. Così l’effetto delle parole dipende dalla profondità o dalla secchezza dell’anima di chi legge.
Inutile quindi accanirsi sulla spiegazione, illudendosi che sia lei il ponte fra un testo e una classe. Per sintonizzarsi con una pagina occorre che risuoni nella cavità della propria la potenza di un’altra anima: il ponte è la sensibilità.
“Quando la spieghi, una poesia diventa banale”, confessava nel Postino Pablo Neruda. Fermo restando che un’ora di letteratura senza testo è come un’ora di calcio senza pallone, spiegare si riduce in pratica a sostituire parole con altre parole (meno poetiche); ma decifrare le parole implica entrare nel campo delle cose.
Si traduce latino: “voluptas, cum maxime delectat, exstinguitur; non multum loci habet, itaque cito implet et taedio est et post primum impetum marcet”. Si passa dal latino all’italiano, da una lingua a un’altra lingua. Eppure per inoltrarsi nell’interpretazione – ma già per comprendere, già per tradurre – occorre scavallare dal piano della lingua al piano della realtà, dove l’anima non è un’appendice: è il motore. Leopardi osservava che un uomo superficiale “intende materialmente quello che legge, ma non vede i rapporti che hanno quei detti col vero, non sente che la cosa sta così”; l’aggravante è che, a scuola, chi “non sente che la cosa sta così” neppure comprende “materialmente quello che legge”.
È ovvio che per tradurre dal latino all’italiano occorra un vocabolario; ma per la seconda traduzione, dall’italiano all’esperienza, serve un altro vocabolario, spesso ancora meno frequentato: una familiarità con l’alfabeto e la sintassi della realtà.
“Il piacere si estingue proprio quando diletta di più; di spazio non ne ha molto, e così riempie presto e viene a noia e dopo il primo impeto marcisce”.
Ce l’abbiamo fatta, game set match. Invece qui comincerebbe il bello.
Generalmente l’insegnante, spaventato della gradazione eccessiva dell’amaro senechiano, lo annacqua farneticando sul contesto della Roma imperiale o vagabondando fra epicureismo e stoicismo o catechizzando il volgo. Rimaniamo fermi, invece, sulla “vera presenza” del testo: Seneca dixit. La frase va spiegata? Disquisiamo pure su “cum” e genitivi partitivi, indichiamo anche sul vocabolario l’uso di “taedio esse”, petrarchizziamo e leopardizziamo, ma siamo sicuri che sia efficace, al di là della fiction informativa, sovrapporre parole a quel sussulto che è accaduto o non è accaduto nell’intelligenza di un ragazzo (e che solo accenderebbe l’interesse per grammatica e intertestualità)?
Probabile che simili evidenze a proposito della “voluptas” risultino più astruse delle coniugazioni verbali, o semplicemente che la scuola non venga percepita come il luogo adatto per accusare il colpo (nelle aule dei replicanti l’attitudine al pensiero è pur sempre clandestina). Comunque, anima, ora che le pietre sono cadute, “qui si parrà la tua nobilitate”.
Il problema didattico è: come si sviluppa quest’anima?
Entrando in classe, l’alternativa per un insegnante non è tra spiegare e interrogare, ma tra accendere una sensibilità o annientarla.
Nella realtà dei liceali, per esempio, si impongono le serate e i 18 anni, dove un po’ tutti galleggiano in balia del conformismo. La scuola sa aiutarli a leggere queste realtà o li lascia allo sbaraglio come consumatori depensanti? Esistono i social, esistono le serie tv, esiste la musica che passa il convento. La scuola, per le frecce a disposizione nel suo arco, potrebbe essere l’unica voce fuori dal coro: la voce critica di ciò che mercato non è. Invece non sa distinguersi dal cicaleccio collettivo, assopita com’è dall’abitudine a riempire le teste e mettere voti, dall’introflessione paragrafesca, dalla saccenteria monologante, che non cerca il contatto – e il contrasto – fra il testo e l’extratesto, fra le parole e il mondo.
È novembre, il mese in cui Giosuè Carducci scorgeva “tra le rossastre nubi / stormi d’uccelli neri / com’esuli pensieri”, e Nazim Hikmet scriveva che “veder cadere le foglie mi lacera dentro / soprattutto le foglie dei viali”: quando tu cammini per strada, grazie ai poeti vedi qualcosa che non avevi mai visto? E voi altri, dopo aver tanto pontificato sulla libertà, vi sentite davvero più liberi o ancora scappate atterriti da un’interrogazione? Un triennio di poesie d’amore ha inciso sul tuo fidanzamento? Il De brevitate vitae ha cambiato il modo in cui hai usato il tempo questo fine settimana?
Quasi quasi, per non sguazzare ipocritamente nel limbo delle chiacchiere, ci si dovrebbe incontrare fuori da scuola: prima viviamo, poi cercheremo le parole adatte, per acciuffare la vita. Invece no, è severamente vietato.
Oltre alla sacra e tremante discrezione che non s’impiccia dei fatti altrui fin quando non è un ragazzo ad aprire una breccia nel suo cuore, a paralizzare è il tarlo della distanza della didattica, ben più disumana della didattica a distanza, per cui ogni tentativo di stabilire un nesso fra la scuola e la vita viene sospettato di illegittima intrusione, che travalicherebbe il filo spinato della professione. Ma come si fa a ignorare che l’aspetto decisivo di ogni materia viene prima di ogni materia?
Siamo dentro un’aporia: insegnare senza coinvolgersi umanamente smentisce il contenuto dell’insegnamento, disinnesca l’apprendimento. L’aridità affettiva, infatti, è gemella dell’aridità intellettuale. Didattica e distanza sono incompatibili. E chi ricorda insegnanti bravissimi ma freddi avrà una strana idea di bravura. La letteratura, indubbiamente, è tutta una violazione della privacy. E l’anima non si oppone al rigore: anzi, ne è un’alleata. La scuola serve sì a offrire strumenti, ma per leggere la realtà. Si leggono i libri per leggere la realtà; anche perché, senza saper leggere la realtà, non si sanno leggere neanche i libri.
Leopardi commuove, ma se non ci si muove dalla cattedra al banco, dalla mia esistenza alla tua, da dentro la scuola a fuori, non c’è verso. Appunto. Perché le parole continueranno a essere percepite come contenuti culturali, che ristagnano in un rigettante moto circolare, quando invece ci sarebbe da scavare all’infinito. Se invece si spiega la lezioncina e si prepara il commentuccio, la ginestra leopardiana soffoca sotto termini pietrificati, che lo recintano nei confini di determinati libri e di determinate tempistiche. I paragrafi, prima che sui manuali, sono stampati nella testa di chi concepisce la conoscenza non come oltrepassamento della siepe ma come accumulo di scatole.
Ecco, insegnare è rompere le scatole. Entrare a gamba tesa nella vita. Senza entrare nella vita non si entra nel testo.
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