Il dibattito attuale sulla scuola non offre idee originali né a livello accademico, dove, purtroppo, si registra la perspicua assenza dei pedagogisti (salvo alcune rare voci), né a livello di opinione pubblica che, ahimè, si lascia travolgere da pareri opposti in un “frullato” caotico di idee. Si vedano, ad esempio, i giudizi sulla didattica a distanza, considerata dapprima come uno strumento formidabile, contestata poi come una forma d’insegnamento palliativa, inadatta a supplire l’unica autentica modalità d’insegnamento, cioè quella in presenza nelle aule.



In questo contesto pandemico, dove il virus del chiacchiericcio pare aver colpito i mass media, una delle poche analisi convincenti mi pare essere quella offerta da Giuseppe De Rita, in un breve saggio (che può essere scaricato dal sito del Censis), dal titolo Una disperata confusione: la scuola italiana al 2021.

Secondo il fondatore del Censis, negli anni 60 del secolo scorso si è combattuta un’aspra battaglia politica tra due posizioni, una delle quali sosteneva che la scuola dovesse entrare in sinergia con il sistema economico (commisurando, ad esempio, le proprie scelte al fabbisogno di quest’ultimo), mentre l’altra affermava che essa dovesse essere del tutto indipendente, cioè “non asservita” al mondo industriale. La seconda posizione, sostenuta sia dalla destra cattolica (l’Associazione maestri cattolici) sia dalla sinistra comunista (Rossana Rossanda, allora responsabile culturale del Pci, affermava che la scuola non deve “produrre ‘semilavorati’ per l’industria”), risultò politicamente vincente e da allora si sviluppò nella scuola stessa un forte movimento autopropulsivo o autopoietico, che ne ha determinato la crescita.



Proprio l’autonomizzazione della scuola dal contesto economico, infatti, ha provocato l’aumento a dismisura delle sue dimensioni. In sostanza, l’obiettivo fondamentale non fu solamente quello di combattere l’analfabetismo (com’era avvenuto meritoriamente negli anni precedenti), ma anche quello di promuovere una scolarizzazione più lunga, con l’accesso a scuola di una popolazione scolastica sempre più folta. In questa prospettiva di crescita quantitativa, secondo De Rita, si è prodotta una sorta di “facilizzazione” dei percorsi scolastici per gli alunni, che ha avuto, di conseguenza, la crescita cospicua anche del corpo docente. I supplenti venivano ammessi all’insegnamento senza una reale selezione, “arruolati” con una sequenza di “sanatorie” il cui scopo, tanto perentoriamente dichiarato quanto disatteso nei fatti, era quello di risolvere, una volta per tutte, il precariato.



De Rita pare muoversi sulla scia del grande sociologo tedesco Niklas Luhmann, che ha analizzato i processi di autonomizzazione dei sistemi e sottosistemi sociali come la scuola, i quali si differenziano da altri sistemi (anzitutto da quello economico, come si è visto, ma anche da quello politico, religioso eccetera), acquisendo una propria indipendente identità e chiudendosi all’esterno.

Questa, con una sintesi che senz’altro fa torto alla complessità del pensiero di De Rita, è la storia della scuola italiana, fino all’attuale pandemia, che ne ha evidenziato tutte le fragilità.

Lo sviluppo autopoietico, infatti, è stato impetuoso e attualmente abbiamo un sistema educativo di grandi dimensioni: quasi 9 milioni di allievi, fra scuola tradizionale e università, con una macchina operativa mastodontica di 1,1 milioni di docenti, purtroppo disfunzionale, gravata di supplenze, precariato, disservizi periferici.

La didattica a distanza, inoltre, ha evidenziato i limiti di preparazione del corpo docente, una parte del quale, e cioè il 17%, secondo la recente ricerca della Fondazione Agnelli dal titolo Osservazioni in classe, svolgerebbe le lezioni in modo inadeguato, con un altro 60% che si collocherebbe a un livello medio. Dati negativi che, per quanto vadano temperati con quello di un 23% di insegnanti in grado di manifestare ottime capacità di spiegare e di svolgere bene la tradizionale lezione, determinano un’immagine della scuola complessivamente non buona.

Se a tutto ciò aggiungiamo anche l’alta percentuale di abbandono scolastico (14%), senz’altro destinato ad aumentare, c’è di che riflettere. Sul piano del dibattito pubblico, infatti, i temi dominanti sono quelli dell’immissione in ruolo dei precari, dei tagli dei finanziamenti, delle “classi pollaio” eccetera. La questione su come riallacciare la scuola alla restante società è, invece, del tutto ignorata. Inevasa è anche la domanda su quali debbano essere le finalità della scuola

De Rita, tuttavia, ci offre due indicazioni. La prima è quella di riordinare il sistema statale muovendo dalla considerazione che la formazione, così come la sanità e la difesa nazionale, rappresenta un interesse nazionale prioritario, mentre la seconda è quella di prendere atto delle numerose iniziative, originali e arricchenti rispetto ai tradizionali percorsi educativi, di natura pubblica e privata, le quali dovrebbero tuttavia essere riordinate in un contesto di trasparenza istituzionale.

Si definisce, così, un quadro complessivo, che contempera la ri/definizione delle istituzioni della formazione con la pluralità delle iniziative. Se l’attuale confusione che regna nella scuola continuasse il suo espansivo e disperante percorso, anch’esso autopropulsivo, subentrerebbe, a mio avviso, un rischio importante: quello che il filosofo Rosanvallon ha definito come secessione delle élites, quando, chi potrà permetterselo, si rivolgerà a scuole e università private di alta qualità, abbandonando al “mondo comune” il corpaccione indolente e impacciato della scuola statale.

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