La scuola è morta, viva la scuola. Ultime notizie sul fronte di una istituzione che si illude di servire ancora a qualcosa, ma invece soffre della “sindrome della mosca”. Bella la domanda e bella la risposta che di recente ha posto Gustavo Piga, professore di economia politica all’Università di Tor Vergata, Roma: “Quando hanno cominciato a scomparire gli studenti? Quando abbiamo voluto scrollarci di dosso la rilevanza della didattica dell’istruzione”.
Mica niente: qui si parla di irrilevanza dell’istruzione e del metodo per impartirla. Come a dire che a scuola si va per fare “altro”. Perché lo stesso, identico pensiero vale per i gradini precedenti della formazione didattica, educativa, culturale, dove ritroviamo l’identico stato di salute precario in cui si trova l’università, con docenti preoccupati, secondo Piga, più di pubblicare saggi – che garantiscono avanzamenti di carriera – che di fare lezione, prendendosi cura di studenti che, a loro volta, si sono adagiati nella molle comodità delle lezioni a distanza introdotte dalle norme antipandemiche non più cancellate.
Insomma: stiamo parlando di qualcosa che altro non è se non la punta dell’iceberg del sistema dell’istruzione nel suo complesso. Se si semina male all’inizio, si raccoglie male alla fine.
Claudio Tesauro, presidente di Save the Children Italia, ha avuto gioco facile nel definire “un dramma, non solo per il sistema di istruzione e per lo sviluppo economico, ma per la tenuta democratica di un paese” il fatto che il 51 per cento degli studenti italiani sui 15 anni, quindi all’ingresso o poco più nella scuola secondaria superiore, non sappia comprendere il significato di un testo scritto. Dopo otto anni di scuola dell’obbligo, cioè oltre metà della loro esistenza. Si chiama “dispersione scolastica implicita” perché, a differenza della dispersione tout court, i ragazzi vanno a scuola, ma non capiscono cosa fanno. Perché quando si parla di “testo scritto” non ci si riferisce – è ovvio, ma è meglio ricordarlo – al solo testo di letteratura – materia sempre più negletta, fatti salvi i licei tradizionali, nei percorsi scolastici nostrani – ma di qualsiasi disciplina, esclusa forse, diciamo forse, matematica.
Le prime vittime del dramma educativo sono, come al solito, i figli di famiglie in condizione economica modesta, tanto italiani quanto e ancor più immigrati, ma non compiamo così l’errore di nasconderci dietro un dito, pensando che se si combatte la povertà si risolve automaticamente il problema: vittime ce ne sono in tutte le classi sociali, comprese quelle dove albergano i figli di papà.
La fotografia scattata da “Impossibile” (titolo che è tutto un programma), la quattro giorni romana sui temi dell’infanzia e dell’adolescenza voluta da Save the Children, viene da lontano (ne abbiamo scritto altre volte da queste colonne) e non è il caso qui di tornarci sopra. Quel che deriva da quanto appena detto è invece l’urgenza di una riflessione su cosa fare per uscire dal buco nero in cui ci siamo infilati, quali metodi adottare, quali proposte di svolta mettere in campo.
È o dovrebbe essere, perché la scuola soffre della “sindrome della mosca”: sbatte la testa contro il vetro nel tentativo di uscire, ma, anziché cercare altrove un’altra via, insiste nel suo inutile proposito. Perché la dichiarazione del primo ministro Draghi che “è la conseguenza della crisi” non sta in piedi. È una sensazione che, al di là della lunga esperienza maturata dietro la cattedra che ce lo conferma, ricaviamo dai due documenti che Ignasi Grau, direttore di Oidel (Ong che si occupa di diritti umani) ha richiamato di recente su queste pagine. Sono Educazione 2030 e Ripensare insieme al nostro futuro: un nuovo contratto sociale per l’educazione.
Entrambi provengono dall’intellighenzia ovattata dell’Unesco: il primo tratta di “educazione inclusiva, equa e di qualità”, il secondo prende in esame lo stato attuale dell’educazione nel mondo giungendo alla medesima conclusione: “la comunità internazionale esige un salto qualitativo” perché “se l’educazione non è di qualità, il diritto all’educazione non si realizza”. Peccato che, al di là dei buoni propositi, non si dica come si debba fare. Concretamente, nella vita di ogni giorno, davanti alla classe che il destino ti ha affidato, dentro il sistema malato con cui devi combattere.
Il mio amico e collega Leonardo, che altra volta ho citato qui, giunto quasi al termine della carriera docente durante la quale ha visto la scuola deperire anno dopo anno sotto i colpi della burocrazia e dell’ignoranza, mi scrive: “E se tornassimo allo studio sic et simpliciter? Ovvero semplificare il percorso di apprendimento limitandoci a poche quanto indispensabili discipline, senza inventarsi tortuose scorciatoie?”.
Già, ecco l’uovo di Colombo: laddove non sia possibile fare di più, meglio limitarsi a poche, indispensabili discipline. A cominciare da italiano, perché senza non possiamo comprendere i testi che ci vengono proposti. Semplice, no?
Ma c’è qualcosa di ancora più semplice, traguardo finale di un percorso iniziato almeno mezzo secolo fa con la progressiva riduzione di pagine e di contenuti (a tutto vantaggio delle immagini: chi ha insegnato negli anni Settanta-Ottanta ricorderà il mantra secondo cui “la nostra è la società dell’immagine”) dei libri di testo (avete conservato un’antologia, una storia, una scienza dei vostri tempi? confrontatela con quella di oggi e lo vedrete). Dunque, perché non eliminarli del tutto? È l’irrilevanza della didattica dell’istruzione: se la mosca non trova altre vie di fuga, meglio rompere il vetro.
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