Librino, periferia popolare di Catania, inizi di ottobre 2022. Una volante della polizia in servizio viene circondata da una quarantina di persone, per lo più giovani, e gli agenti aggrediti. La risposta delle forze dell’ordine arriva pronta e decisa: il quartiere viene messo sotto osservazione stretta per una settimana. Vengono controllate più di 300 persone, elevate 66 multe e identificati e sanzionati i responsabili dell’aggressione agli agenti. Quindi, il prefetto convoca nel quartiere il vertice per l’ordine e la sicurezza pubblica, da cui emerge una indicazione: il problema non si risolve con la militarizzazione, ma ripartendo dalla scuola e dall’educazione. “Noi su questo dobbiamo lavorare – dichiara il prefetto Maria Carmela Librizzi – perché se non coinvolgiamo i ragazzi in attività e iniziative togliamo loro il futuro e lo togliamo anche alla città”.
Ma anche ripartire dalla scuola, come istituzione, non risolve il problema. E, inoltre, non è così semplice. “Per molti dei nostri ragazzi delle periferie – racconta un preside che ha lavorato a lungo in un istituto statale di periferia – lo Stato è una realtà estranea, se non addirittura nemica”. Così come lo sarebbero i poliziotti e i professori. “Un giorno uno studente – prosegue il preside – mi disse: siete gli stessi, solo che i poliziotti usano la pistola per affermare l’ordine, voi insegnanti la penna”.
È vero, bisogna ripartire dalla scuola, ma questa deve abbattere (idealmente e, in qualche caso, praticamente) gli steccati che la separano dagli allievi e dalle loro famiglie. I ragazzi di alcuni quartieri di periferia, nel pomeriggio, scavalcano i cancelli o entrano dalle finestre negli istituti scolastici per trovare spazi da abitare. Da qui l’idea di un preside di aprire il portone della scuola il pomeriggio e offrire ai minori un laboratorio e alcuni spazi in cui essi possano stare e operare con la sorveglianza di alcuni educatori.
La distanza fra la scuola e decine di migliaia di studenti in diversi quartieri popolari del Sud aiuta a capire l’altissimo tasso di dispersione scolastica, che in alcune zone arriva addirittura al 28%. Eppure, per invertire la rotta e ripensare lo sviluppo delle città meridionali bisogna ripartire proprio dalla cura dei minori. E, in questo settore, non bastano le risorse milionarie del Pnrr o i proclami. Servono educatori, insegnanti, assistenti sociali, magistrati, psicologi, volontari animati da un sincero desiderio di prendersi cura dei ragazzi. E servono misure concrete che, giorno dopo giorno, aiutino a modificare la situazione tenendo conto del contesto.
Analizziamo due esempi concreti emersi dalla cronaca in queste settimane. Il primo è l’attivazione nel territorio della città metropolitana di Catania di sei Équipe Multidisciplinari Integrate (Emi), composte da neuropsichiatri infantili, psicologi, educatori e assistenti sociali che affiancheranno gli uffici giudiziari nei numerosi casi che interessano i minori (o in quanto vittime, o in quanto protagonisti di crimini). L’iniziativa è frutto del lavoro dell’Osservatorio prefettizio sulla devianza giovanile ed è stata attivata grazie a protocollo firmato dall’Asp di Catania, dalla Prefettura, dal Tribunale per i minorenni, dalla Corte d’Appello, dalla Città Metropolitana. È un piccolo passo, si dirà. Ma non è così in una città commissariata che ha (formalmente) in organico più di cento assistenti sociali e oggi se ne ritrova in attività meno di trenta.
Secondo esempio. Un progetto che mette insieme un’impresa sociale di Milano (On srl) e due realtà di volontariato di Catania (l’Associazione Cappuccini e gli educatori dell’Istituto Madonna della Provvidenza al Tondicello della Plaia). Il progetto si chiama “Di bellezza si vive” e sta interessando più di 40 minori di due quartieri fra i più disagiati della città. I ragazzi e le ragazze sono normalmente seguiti dai volontari catanesi, ma in questo progetto si affiancheranno a loro alcuni operatori dell’impresa sociale milanese. L’idea che si sta perseguendo è semplice: la rinascita di una persona, di un quartiere, parte dall’esperienza della bellezza. Ecco perché in questi primi mesi i minori stanno anzitutto riscoprendo luoghi, miracoli della natura e monumenti, che erano a pochi passi da loro, ma di cui non avevano mai fatto esperienza concreta. Può sembrare strano: ma questi giovani cresciuti in un ghetto, sotto il vulcano, non sono mai andati sull’Etna. O a visitare il Castello di Federico II. Né sono scesi nella Caverna di via Daniele (che pure è nel loro quartiere), frutto dell’eruzione dell’Etna del 1669, utilizzata durante la seconda guerra mondiale come rifugio antiaereo.
Il secondo passo sarà la rigenerazione urbana di un luogo simbolico del quartiere, per esempio una piazza, con l’intervento diretto dei minori, attraverso disegni, murales, racconti, iniziative. Perché la scoperta della bellezza genera la voglia di comunicarla e di prendersi cura del bene comune.
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