Uno dei punti qualificanti del programma di governo che sta nascendo sarà la scuola. Quando sarà noto anche il nome del ministro dell’Istruzione, sarà più chiara anche la strategia complessiva e gli obiettivi concreti da raggiungere in questo settore.
Innanzitutto sembra positiva la proposta di Mario Draghi dell’allungamento dell’anno scolastico, per far recuperare il tempo perso soprattutto agli studenti delle superiori. Proprio su queste pagine l’avevamo suggerita già nell’aprile 2020, quando si cercava di trovare un’alternativa alla promozione generalizzata, che poi venne proposta e attuata dalla ministra Azzolina nel giugno scorso.
Più che soldi alla scuola serve la cura, dopo anni di riforme che ne hanno disarticolato la struttura organizzativa e la sua mission. Ci sarebbero tantissimi settori d’intervento, ma qui ci permettiamo di suggerirne alcuni.
Innanzitutto c’è la questione docente. L’educazione è fondata sul rapporto tra degli adulti motivati e competenti e dei giovani disposti a seguirli. Il punto debole sta proprio nella formazione degli insegnanti di cui nessuno si occupa. Si entra nel corpo docente per concorso, per assunzione diretta dopo una lunga gavetta nel precariato e a parte alcuni crediti universitari (Cfu), nel corso della carriera di un insegnante nessuno va a verificare e a sostenere le motivazioni e la preparazione alla docenza. Un recente studio della Fondazione Agnelli, “Osservazioni in classe”, stima che un docente su sei non sappia fare lezione e il 60% dovrebbe obbligatoriamente aggiornarsi.
I docenti precari, quest’anno circa un quarto del totale, sono poi un paradosso. Ebbene molti si fanno le ossa con la pratica e sono stati messi in cattedra all’improvviso, perché semplicemente ce n’era bisogno per coprire i posti vacanti. Nessuno si occupa della loro preparazione disciplinare e delle abilità all’insegnamento. Molti di loro sono addirittura docenti di sostegno, assunti per un anno senza specifiche competenze, solo perché non ci sono sufficienti enti di formazione che rispondano alla domanda.
Il personale di ruolo non è messo meglio. In quarant’anni di carriera nessuno sostiene lo sforzo educativo e la fatica di stare in classe. I docenti sono sempre stati numeri (sono circa 800mila) e nessuno aiuta il loro tentativo di sostenere i ragazzi a diventare grandi, che in fondo coincide con il lavoro complicato di motivare, di spingere all’impegno e al miglioramento di sé. Insomma buona parte dei docenti italiani, pur bravi e mal pagati, nell’azione formativa pratica il “fai da te”, obbedendo a mode pedagogiche, che sono passate dalla lotta al nozionismo alla tassonomia di Bloom, sino alle competenze.
Un’altra emergenza di cui si parla poco riguarda la lettura. I dati parlano chiaro e dicono che pena il rischio di default del sistema di istruzione, sia necessario intervenire in modo urgente. L’ultimo rapporto Eurostat del 2018 precisa che in Italia i lettori abituali sono l’8,5% della popolazione (in Finlandia il 16,8%, ma in Francia solo il 2,6%) e il “Bel paese dove il sì suona” è al 17esimo posto in Europa su 28 tra i paesi che acquistano libri e giornali. Inoltre i giovani che alle superiori prendono in mano un libro in modo frequente sono pochissimi per classe, mentre alla primaria e alle ex medie il rapporto con la lettura è migliore e i docenti di lettere incentivano la biblioteca scolastica o l’acquisto di libri. Il livello critico si manifesta a partire dai 14 anni, età in cui l’allontanamento dalla lettura diventa siderale. Qui le competenze degli studenti italiani sono quasi disastrose e per l’Ocse ci collochiamo al 23esimo posto su 29 paesi misurati.
Secondo i dati Invalsi 2018 in terza media il 35% degli studenti non capisce un testo di italiano e secondo il quotidiano Repubblica nei licei troviamo la percentuale più elevata di studenti che raggiungono i livelli più alti, definiti come top performer: sono il 9% contro il 2% dei tecnici. Chi raggiunge il livello minimo di competenza nella lettura è l’8% nei licei, percentuale che sale al 27% nei tecnici. Non raggiunge il livello 2 – quello minimo – almeno il 50% degli studenti degli istituti professionali e della formazione professionale. Bruno Le Maire, ministro francese dell’Economia, in una recente intervista televisiva ha detto “Leggete, staccatevi dagli schermi. Gli schermi vi divorano, la lettura vi nutre. Gli schermi vi svuotano, i libri vi riempiono. Fa tutta la differenza. La letteratura e i libri vi permetteranno di scoprire quanto siete unici e fino a che punto non assomigliate a nessun altro. È quello che fa l’umanità. Ogni persona è unica. Ed è la letteratura che ce lo insegna”.
Del gap tecnologico delle scuole italiane se ne sa poco e purtroppo non ci sono dati disponibili. Nella didattica a distanza il meccanismo funzionava in quanto i collegamenti tra docenti e studenti erano diffusi sul territorio (da casa a casa) e raramente nella primavera 2020 i sistemi privati di videoconferenza sono andati in crash o hanno avuto mancanze di linea continuative. Invece ora la situazione si è complicata con il 50% degli studenti tornati in classe. Le linee internet delle scuole infatti non riescono a supportare le lezioni che i docenti fanno da scuola verso il restante 50% rimasto a casa e si verificano frequentissime interruzioni di linea con audio non continuativo e lezioni a singhiozzo, che spesso non si concludono. Un istituto di istruzione superiore medio ha la necessità di supportare circa 400-500 collegamenti in upload e in download (50% dell’utenza), ma i supporti tecnologici non sono all’altezza e il deficit formativo, già grande con la Dad, ora appare maggiore.
Le possibilità di un debito buono, sostenuta da Mario Draghi al Meeting 2020 di Rimini, fece notizia. Anche nella scuola italiana ci vogliono investimenti qualificati, ma diventano tali se sono al servizio di buone idee e se seguono una seria riflessione sui suoi compiti. L’ex banchiere centrale europeo sembra dotato sia delle idee che dei soldi (europei).
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