Nonostante le notizie sulla scuola, nei media, siano ricorrenti, nessuna forza politica, né governativa né di opposizione, propone esplicitamente un programma di riforme scolastiche.
Anche quelle presentate nell’ultima campagna elettorale, purtroppo, rivelano il carattere caduco di quel momento, che attualmente si misura con la scarsa realizzabilità, soprattutto sul piano economico. Ciò vale per quanto riguarda la promessa di un aumento generale dei finanziamenti alla scuola, di cospicui incrementi stipendiali per tutti i docenti, di una nuova edilizia scolastica, ecc. Per queste ragioni, vale la pena di riprendere il discorso sui progetti di riforma, muovendo dal tema che più fortemente connota la missione istituzionale della scuola, cioè quello pedagogico.
Quest’ultimo implica la didattica, perché ha a che fare con le modalità d’insegnamento. Ebbene, a fini esemplificativi, se adottassimo una prospettiva dualistica, costituita cioè da scelte polarizzate e oppositive, potremmo sintetizzare la questione nel modo seguente. È bene adottare strategie flessibili per dialogare con i giovani, tenendo conto della loro fragilità soggettiva, oppure è opportuno interagire con loro senza fare sconti sulle difficoltà di apprendimento, che preludono a quelle più generali della vita e che dovranno essere affrontate inevitabilmente?
Ovviamente vi sono buoni ragioni per orientarsi verso l’uno oppure l’altro dei due poli, intesi in maniera dicotomica. Nel secondo caso si può fare riferimento agli studenti del “Berchet” di Milano, che si sentivano maltrattati dai docenti ed erano ansiosi e stressati per l’eccessiva competizione, con molti casi di abbandono e di trasferimento ad altre scuole. Ma anche un atteggiamento comprensivo e flessibile da parte dei docenti può produrre effetti negativi, come quello delle promozioni facili, che dequalificano la scuola.
D’altro canto l’opzione di porre gli alunni, senza infingimenti, di fronte alle difficoltà dell’apprendimento ha il suo dark side, che consiste nel tasso elevatissimo (tra i più alti in Europa) di abbandono scolastico. Certamente le difficoltà fanno crescere, anche se non vengono superate. Tuttavia, per non schiantarsi su di esse, che talvolta appaiono disperanti, occorre avere la struttura psichica per elaborare l’insuccesso. È evidente, dunque, che occorre trovare formule didattiche nuove e intermedie tra i due poli, all’interno del continuum che li congiunge. Ma per capire quali possano essere occorre riflettere sulla condizione giovanile, cioè su quella che è stata definita come “emergenza educativa”.
Poiché ritengo che la questione giovanile non sia “emergenziale”, ma strutturale e scevra di straordinarietà, mi pare opportuno muovere la riflessione da un testo di un ventennio fa circa, di Miguel Benasayag e Gérard Schmit, rispettivamente uno psicoanalista e uno psichiatra. Il testo è dedicato al tema delle “passioni tristi”, che, secondo Spinoza, sono quelle che riguardano non tanto il pianto o il dolore, ma la mancanza di senso e la disgregazione.
I due autori, dopo aver condotto un’indagine sui servizi di assistenza in Francia, giungono alla conclusione che molte difficoltà, constatate individualmente, in realtà non hanno un’origine psicologica, ma riflettono una tristezza diffusa tipica della nostra società. È il senso permanente di insicurezza e precarietà che pervade la nostra vita e provoca stati di sofferenza personale. È andato perduto il significato del futuro, non solo culturalmente (si pensi al venir meno dell’idea positivista di progresso scientifico, al declino delle idealità rivoluzionarie e a quello delle possibilità di una evoluzione salvifica di natura psicoanalitica), ma anche antropologicamente, nel senso che il crepuscolo del futuro cambia la nostra soggettività.
I giovani, ovviamente, sono stati i principali destinatari di questo malessere socio-culturale. Ma, se fino a qualche tempo fa era ipotizzabile un regresso della crisi e il ripristino di una soggettività capace di recuperare una qualche volontà di potenza, forse sanata proprio dalla consapevolezza di un declino oggettivo di natura sovrapersonale, oggi una tale credenza, essenziale anche nel discorso pedagogico, non trova più fondamento. È cambiata ulteriormente, rispetto all’indagine dei due autori, la configurazione antropologica della soggettività giovanile, che non possiede più le stesse potenzialità di oggettivarsi nel mondo, né ritiene che questa sia una finalità da perseguire. Questo è quanto ci segnalano alcuni testi che promanano dal discorso psicoanalitico, come quello di Paulo Barone, psichiatra, che ci avverte circa i processi di introversione sempre più diffusi.
In fondo è proprio il rapporto tra i due poli di cui abbiamo parlato poc’anzi che oggi si muove verso nuovi equilibri. L’oggettività di un mondo malleabile e fluido, che si piega plasticamente a fronte delle esigenze individuali dei giovani, si rivela inadeguata, alla stregua di chi ripropone una spartana soggettività, che nel secolo scorso trovava fondamento nel paradigma educativo gentiliano. I due mondi, quello oggettivo (seppur frutto di rappresentazioni) e quello soggettivo mancano di coordinamento. In questo momento, la positività, l’estroversione sociale, l’idea di successo non funzionano più. Occorre prendere atto che oggi, per i giovani, la realizzazione sul lavoro ha sempre meno importanza, come dimostrano le “grandi dimissioni” (si veda il recente lavoro di Francesca Coin); che anche la sessualità è recessiva (Luigi Zoja) e che ciò che anima le scelte esistenziali assomiglia sempre di più a una sorta di ritiro sociale generalizzato. La malinconia torna a essere un sentimento diffuso e sdoganato, verso cui non si registra più il tradizionale stigma dequalificante (Susan Cain).
È evidente come non sia riproponibile il modello di forte soggettività che appartiene alla tradizione pedagogica gentiliana (che recentemente è stato riproposto da Galli della Loggia), ma che risulti altresì inadeguato quello della facile condiscendenza ai giovani, con una didattica improvvisata e fluida. Per questo, oggi, il dibattito sulle politiche scolastiche va elevato. Nel disastro sindacale e ministeriale dell’attuale scuola, paradossalmente ci si può aspettare qualcosa dalle forze politiche. Se solo accettassero di confrontarsi seriamente.
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