Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, “la disabilità è una limitazione o una perdita conseguente a menomazione della capacità di effettuare attività nei modi o nei limiti considerati normali per un essere umano”.

E la nostra più importante legge di settore – la 104/1992 – è ancora più certosina nel definire “persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica-psichica o sensoriale, stabilizzata o regressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione”.



Fateci caso: abbiamo bisogno di definizioni che giustamente devono individuare il destinatario della previsione astratta ma che, inevitabilmente, finiscono per evocare un concetto di perimetro e dunque di divisione, laddove serve inclusione.

Sì, perché le barriere sono innanzitutto mentali e sono anche più dure da abbattere di quelle architettoniche: tuttora decliniamo la disabilità come un problema e mai come una risorsa. Continuiamo a parlare dei diritti delle persone diversamente abili, distinguendoli da quelli del restante genere umano, e così compiamo la prima e più indigesta discriminazione. Ma ricordiamoci sempre che sono “persone”, non “il resto di niente”.



San Giovanni Paolo II, nel  messaggio inviato nel gennaio 2004 ai partecipanti al simposio internazionale su dignità e diritti della persona con handicap, ricordava che “la qualità di vita all’interno di una comunità si misura in buona parte dall’impegno nell’assistenza ai più deboli e ai più bisognosi e nel rispetto della loro dignità di uomini e di donne. Il mondo dei diritti non può essere appannaggio solo dei sani; una società che desse spazio solo per i membri pienamente funzionali, del tutto autonomi e indipendenti, non sarebbe una società degna dell’uomo. La discriminazione in base all’efficienza non è meno deprecabile di quella compiuta in base alla razza o al sesso o alla religione”.



Sono passati 20 anni, ma quelle parole restano attuali, perché a tutti i livelli continuiamo a cesellare distinguo e preferenze. Sono quelle che feriscono, disorientano, scoraggiano.

Sono quelle che obbligano a battaglie continue perché la società riconosca il diritto ad una esistenza dignitosa, rimuovendo – come dice la Costituzione – “gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.

Ancora oggi, più di 30 anni dopo l’approvazione della legge quadro per “l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”, troppi genitori di bambini speciali devono ricorrere all’autorità giudiziaria perché i servizi a ciò deputati non assicurano il pieno soddisfacimento dei loro bisogni essenziali, non favoriscono la frequenza scolastica come per gli altri alunni.

Con buona pace degli altisonanti principi scolpiti nelle leggi, anche sovranazionali, che si fanno vanto di vietare “qualsiasi forma di discriminazione” e per converso “di assicurare l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità”.

Assistiamo a un continuo addolcire le definizioni, passate da handicappato a portatore di handicap, a disabile, fino all’odierno diversamente abile. Io stessa ho usato il termine “speciale”, ma se abbiamo sempre bisogno di distinguere, non ci libereremo mai da quel senso di separazione tra il normale e ciò che non è ritenuto tale. E in questo modo resteranno le difficoltà causate da un mondo che tratta con pignoleria burocratica la sensibilità delle persone.

Così però, la felicità, che giustamente il ministro Locatelli invoca per tutti, rimane un miraggio. E per tante famiglie vale solo la scritta che campeggia sulle colonne di Scampia: “Quando la felicità non la vedi, cercala dentro”.

È vero, le classificazioni servono, anche a tutela degli interessati, per qualificarne correttamente i bisogni e favorirli in un percorso agevolato. Perché lo Stato ha necessità di conoscere le condizioni di ciascuno, giacché solo così può adottare i “provvedimenti che rendono effettivi i diritti, con particolare riferimento alle dotazioni didattiche e tecniche, ai programmi, ai linguaggi specializzati, alle prove di valutazione e alla disponibilità di personale appositamente qualificato”.

In quest’ottica, la massima integrazione si fonda sì su programmi educativi individualizzati, ma troppe volte finisce poi vanificata dalla cronica insufficienza dei mezzi.

E così un bambino – uguale agli altri, perché sono tutti e solo bambini – non può andare a scuola, per le molteplici difficoltà, che a volte ricorrono alternativamente, altre volte addirittura si cumulano: il docente di sostegno è previsto solo per poche ore, lo scuolabus non è attrezzato per le sue esigenze, non gli si può assicurare assistenza sanitaria, perfino si disputa se in bagno debba accompagnarlo un collaboratore scolastico o piuttosto un operatore socio-assistenziale, che però è esterno alla scuola.

E la sua famiglia impara molto presto che deve fare una scelta: tenerlo in casa e segregarlo ancor di più, o ricorrere ai tribunali, ultima stazione di una penosa via crucis.

Ma proprio questa soluzione, paradossalmente, sta contribuendo ad elevare la coscienza sociale, che dal confronto nelle aule di giustizia comprende sempre più l’importanza di non emarginare, di rendere effettivi i diritti di ogni persona: così l’immagine del cittadino che trascina lo Stato in tribunale per costringerlo a fare ciò che promette nella Costituzione è allo stesso tempo la massima espressione del concetto di democrazia  e la più plastica dimostrazione che l’inclusione di ogni individuo nel tessuto sociale è ancora in gran parte una terra promessa.

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