Ormai il nuovo anno scolastico è cominciato in tutte le Regioni e, come tutti gli anni, parte l’allarme per le “cattedre vuote”: allarme sicuramente fondato, anche se le sue esatte dimensioni restano incerte. Ad un estremo il ministro Bianchi, il quale ritualmente ha garantito che il 15 settembre tutte le cattedre sarebbero state coperte, omettendo di dire che molti docenti saranno sostituiti dopo pochi giorni e magari più volte prima che si arrivi alla copertura definitiva.



All’estremo opposto i sindacati del personale che parlano di 200mila carenze, mettendo insieme i posti realmente da coprire e il numero totale di coloro che aspirano a coprirli. In ogni caso, è vero che un numero significativo di posti non hanno ancora un insegnante definitivo e che l’esperienza degli scorsi anni insegna che il “balletto” dei docenti non si fermerà almeno fino alla fine di ottobre. Un mese e mezzo di didattica zoppa per almeno il 15 per cento degli studenti, secondo una stima prudente.



Si tratta di un problema storico per la nostra scuola, che risale all’espansione della domanda di istruzione alla fine degli anni Sessanta. Il fatto che, pur essendone note le dimensioni, le modalità con cui si manifesta ed in gran parte anche le cause, non si riesca a risolverlo, indica che l’approccio fin qui utilizzato è sbagliato. Neppure la completa informatizzazione delle procedure ha migliorato le cose: ché anzi, agli errori tradizionali, si sono aggiunti quelli dovuti alla digitalizzazione dei dati.

Qual è dunque l’errore radicale che impedisce di risolvere il problema? Si tratta di una questione di natura sociale e sindacale, non tecnica: il presupposto che non si vuole mettere in discussione è che ogni aspirante docente abbia il diritto illimitato di scelta su tutti i posti liberi della sua provincia. Il che comporta una conseguenza evidente: i posti possono essere attribuiti solo sequenzialmente, uno alla volta. Fino a quando il primo non ha scelto, il secondo non può farlo e via di seguito, fino alla conclusione.



A questo si aggiungono i frequentissimi ricorsi, dovuti in parte al lamentevole stato di funzionamento di molti uffici, ma anche alla radicata convinzione di quasi tutti gli aspiranti rimasti insoddisfatti di essere vittime di abusi.

Se si vuole considerare questo meccanismo sub specie philosophiae, esso discende da un punto di partenza tutt’altro che incontrovertibile: i posti di insegnamento – e quindi la scuola – sono una risorsa per chi aspira ad occuparli e non per gli studenti che dovrebbero trarne beneficio: il cui diritto ad avere un docente stabile in cattedra può tranquillamente attendere anche molte settimane.

A difendere questa trincea ideale stanno ovviamente i sindacati – è il loro mestiere – e purtroppo anche i Tar, quando vengono chiamati in causa. Le norme vigenti e le ordinanze recepiscono infatti questo principio, pur senza chiamarlo con il suo nome: una privatizzazione de facto di una risorsa pubblica. Quel che stupisce è invece che la pubblica amministrazione non faccia nulla per mutare una normativa così palesemente inadeguata. Il motivo addotto è in teoria elevato: l’imparzialità dell’amministrazione. Si dimentica però che l’imparzialità non riguarda solo i rapporti fra gli aspiranti, come se quei posti fossero cosa esclusivamente loro. L’imparzialità è fra tutti i portatori di interesse: mentre quelli di studenti e famiglie vengono sistematicamente dimenticati. Per non dire che – se vogliamo chiamare in causa l’art. 97 della Costituzione – in esso si vincola il funzionamento dei pubblici uffici non solo al principio di imparzialità, ma anche a quello di buon andamento: il grande assente nel funzionamento di questa macchina gigantesca quanto inefficace.

Si suole portare a scusante la dimensione degli interessi in gioco: oltre 200mila aspiranti all’insegnamento. Si dimentica che gli studenti sono oltre 7 milioni e mezzo, dei quali almeno il 15 per cento interessati al problema: un milione di cittadini, a voler trascurare le loro famiglie e l’interesse generale del Paese ad avere una scuola che funzioni fin dal primo giorno.

Detto questo, se i pubblici poteri decidessero di interpretare finalmente il proprio ruolo nel modo che la Costituzione ed il semplice buon senso richiedono, il rimedio ci sarebbe: un rimedio che è attuato in molti altri Paesi e che ha fatto le proprie prove. Basterebbe conferire alle scuole il potere di attribuire i posti vacanti. Mettiamo pure da parte, in questa sede, la questione del reclutamento a tempo indeterminato e la vexata quaestio dei concorsi. Il problema di cui ci occupiamo, e cioè il regolare inizio delle lezioni, poco ha a che vedere con quello. Per le ragioni più varie, un numero elevato di posti non può avere un titolare, ma deve essere coperto annualmente da un docente in possesso dei titoli, classificato come supplente annuale.

Le scuole conoscono il proprio organico di fatto, cioè quello definitivo, nella prima metà di luglio: a partire da quel momento potrebbero cominciare a nominare, con decorrenza settembre. Per fare ciò potrebbero utilizzare le graduatorie provinciali – le stesse che gli uffici utilizzeranno molte settimane dopo – facendo salvo il rispetto dei punteggi e delle precedenze. Esiste un’ulteriore variante a questa possibilità: che le scuole utilizzino le proprie graduatorie, che sono un sottoinsieme di quelle provinciali, comprendenti i soli docenti che hanno fatto domanda di supplenza in quella scuola (ogni docente può fare domanda solo in un numero limitato di scuole, ma – quando è chiamato dall’ufficio provinciale – può scegliere anche su tutte le altre).

Se ogni scuola utilizzasse le proprie graduatorie, molto più corte, la copertura delle cattedre vacanti si esaurirebbe in una settimana o poco più: ma i docenti potrebbero conseguire nomina solo in un numero limitato di scuole (che sarebbero però quelle scelte ed indicate da loro stessi per le supplenze). Se si volesse invece far salvo ad ogni costo il principio della scelta su tutte le scuole della provincia, la procedura sarebbe più lenta, ma comunque incomparabilmente più veloce di quella attuale, considerando anche che potrebbe iniziare prima.

Perché un tale meccanismo possa dare gli effetti voluti, occorre anche che sia accompagnato da un’altra regola: che ciascun docente sia libero di accettare la proposta di nomina di una scuola o di rifiutarla, scommettendo che riceverà proposte migliori. Ma, una volta accettata una nomina, non potrebbe più rifiutarla o cambiarla. Altrimenti, si riproporrebbe una delle cause del balletto attuale. Ogni scuola ha annualmente da coprire un numero limitato di posti: raramente più di dieci o quindici. Se fosse libera di chiamare già da luglio e sicura che, una volta accettato, i nominati non possono più ripensarci, il suo organico sarebbe completo già ai primi di agosto e pronto per garantire il normale avvio di settembre. E ciò in quanto il processo si svolgerebbe in parallelo, cioè con la partecipazione contemporanea di tutte le scuole, anziché in serie, cioè in unica sede provinciale e rigidamente con la nomina di un aspirante alla volta.

Certo, per tornare all’analisi del metodo sub specie philosophiae, questo comporterebbe una radicale inversione del principio: i posti sarebbero nella disponibilità delle scuole, che li amministrerebbero nell’interesse dei propri studenti. Tornerebbero quindi ad essere una risorsa al servizio dei pubblici interessi (come sarebbe normale, visto che sono pagati dall’erario), anziché vincolata agli interessi di privati – gli aspiranti alla nomina – come in atto accade. Il che, anche solo sotto il profilo del diritto pubblico, costituirebbe già un significativo passo in avanti.

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