La scorsa settimana ho passato buona parte del mio tempo correggendo le bozze del mio ultimo libro. Questa informazione non ha alcun interesse per i lettori, e difatti parto da qui solo per dire che ho riletto, fra i testi della parte antologica, il rapporto sul futuro del lavoro fatto nel 2016 (tre anni fa!) da Deloitte, una delle grandi società multinazionali di consulenza e ricerca.



Scrivono gli autori: “Il mondo del lavoro dovrà rispondere a nuove e imprevedibili sfide: cresce la probabilità che si verifichino eventi imprevedibili ma di grande impatto, i cosiddetti cigni neri”. La metafora del “cigno nero” sviluppata da un matematico e filosofo statunitense di origine libanese (si chiama Nassim Taleb, per chi fosse interessato a saperne di più) descrive un evento del tutto inaspettato, che ha gravi conseguenze. “Gli eventi ‘cigno nero’ sono caratterizzati dalla loro estrema rarità, dalla gravità delle conseguenze, e dalla diffusa consapevolezza che non avrebbero potuto essere previsti. Possono causare danni catastrofici all’economia e dal momento che non possono essere previsti ci si può preparare ad essi solo irrobustendo i sistemi”.



Solo a posteriori si vede che questi eventi potevano essere messi in conto (ha fatto il giro del web, a proposito del coronavirus, il discorso di Bill Gates del 2015), ma nel momento in cui accadono le persone sono vittime di una “distorsione psicologica” che impedisce loro, come singoli e come collettività, di coglierne il ruolo dominante nella storia, molto superiore a quello della somma di una massa di eventi.

Prosegue il testo: […] Capire l’impatto delle innovazioni sull’educazione, le competenze e lo sviluppo di carriera è cruciale per consentire agli Stati di gestire rischi e opportunità collegati ai cambiamenti della forza lavoro, per una crescita inclusiva, e il mondo della produzione dovrà concentrarsi nel definire di che competenze avrà bisogno nei prossimi dieci anni. Stati, mondo del lavoro e società devono lavorare insieme per supportare la crescita di una forza lavoro in grado di evolversi continuamente. Questo significa ripensare all’educazione, ai modelli di carriera e all’approccio alla formazione nel corso della vita, innovando il rapporto fra pubblico e privato e modificando le politiche del lavoro così da supportare la crescita e facilitare l’innovazione, lottando contro la disoccupazione di lungo periodo”.



Mi sembra che queste considerazioni si applichino in modo calzante a quanto sta accadendo oggi. La diffusione del coronavirus ha mostrato ampiamente la sua natura di “cigno nero” e ha già costretto le istituzioni educative, scuole e università, pressate dall’emergenza, a modificare il loro approccio all’insegnamento, con esiti disuguali, ma innescando una tendenza probabilmente irreversibile. La maggior parte dei docenti si è rapidamente impratichita nell’utilizzo di tecniche che fino a quel momento aveva considerato estranee, quando non ostili al suo modo di fare lezione: e il concetto stesso di lezione è passato abbastanza rapidamente dal trasmettere una serie di informazioni (se ci pensate, si diceva “impartire una lezione”) al fornire una serie di stimoli, coinvolgendo i ragazzi in una dinamica in cui apprendimento e insegnamento sono sempre più connessi, modificando anche il concetto di “valutazione”.

Forse l’università era più preparata, e ha fatto un po’ meno fatica, ma arrivano da molte parti segnalazioni di scuole che si sono interamente riconvertite all’insegnamento a distanza, in attesa non tanto di abbandonarlo quanto di collegarlo proficuamente alla – insostituibile – presenza in classe. Si va con ogni probabilità, per rubare il linguaggio alle tecniche di mercato, verso un apprendimento centrato sul consumatore, o meglio centrato sulla consapevolezza che i ragazzi sono contemporaneamente produttori e consumatori di conoscenze.

La sfida che il sistema formativo nel suo insieme, dalla scuola alla formazione professionale alla formazione permanente, non può perdere, è però soprattutto un’altra. Serviranno competenze diverse non solo per il mondo del lavoro, ma per vivere in una società in cui cambieranno, in che misura non possiamo prevederlo, “le relazioni, la capacità di fare rete e di costruire le comunità, il modo di intendere la cultura, i processi di socializzazione, l’organizzazione dell’abitare, il rapporto fra tempo di lavoro e tempo libero, in modo mai visto prima”.

Il rapporto cita Lawrence Katz, un economista di Harvard, secondo cui in futuro l’automazione “ci riporterà ad un periodo di artigianato e di arte”, svilupperà il rifiuto dei lunghi tempi di trasferimento e rivaluterà la vita nei piccoli centri e il tempo per occuparsi dei bambini e dei vecchi”.

Sulla stessa linea il World Economic Forum del 2015 sottolinea che “la cultura deve evolversi in parallelo alla tecnologia, e oltre a lavorare al progresso tecnologico, dovremo contemporaneamente lavorare al progresso culturale” anche se la cultura ha bisogno di più tempo per evolversi, e i ragazzi devono passare meno tempo a scuola e continuare ad imparare per tutta la vita. La scuola deve trasmettere “il gusto di ‘essere umani’ piuttosto che la trigonometria… stiamo già assistendo al sorgere dell’economia condivisa, che diventerà la pietra angolare di una società dove a tutti è garantito l’accesso alle stesse risorse”.

Non c’è dubbio che l’educazione e lo sviluppo delle competenze saranno fondamentali a questo riguardo. Ma non mi pare che qualcuno si stia chiedendo che scuola serve a questa società, e che caratteristiche dovranno avere gli insegnanti e i dirigenti, magari recuperando l’intuizione di Schon, che definisce la professione docente come professional artistry, con una interessante combinazione di rigore e di creatività.  Si sta sviluppando poco e con molta fatica una riflessione sui curricoli e sui metodi, sul raccordo con il mercato del lavoro, su di una partecipazione non puramente formale delle famiglie; il concetto di “sistema formativo” è fermo a vent’anni fa quanto a individuazione degli attori e delle modalità di integrazione.

In quella specie di “ora del dilettante” in cui agisce molta parte dei decisori delle politiche educative, forse varrebbe la pena di riflettere sul danno che può fare la presunzione di sapere tutto. Il rapporto cita il dirigente della Decca, che nel 1962 rifiutò un provino dichiarando: “Non mi piace il loro stile, e la chitarra sta passando di moda”. Il gruppo così recisamente rifiutato, quasi inutile dirlo, erano i Beatles…

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