Il recente messaggio del dirigente scolastico Domenico Squillace del Liceo Volta di Milano sull’emergenza Coronavirus ha avuto, per la sua intelligenza e vigore, immediata diffusione sulla rete; in esso si cita un passaggio de I promessi sposi in cui Manzoni descrive l’arrivo della peste a Milano. Col suo messaggio il preside invita alla razionalità e a non avvelenare i rapporti sociali di fronte al rinnovarsi di fenomeni già evidenziati da Manzoni e che Squillace descrive con esattezza : “la certezza della pericolosità degli stranieri, lo scontro violento tra le autorità, la ricerca spasmodica del cosiddetto paziente zero, il disprezzo per gli esperti, la caccia agli untori, le voci incontrollate, i rimedi più assurdi, la razzia dei beni di prima necessità, l’emergenza sanitaria”. Trovarsi per una settimana, in circa 80 persone fra docenti e studenti, in due paesi europei dopo la sospensione delle attività didattiche ordinata domenica 23 febbraio ha voluto dire sperimentare personalmente la veridicità di taluni aspetti sottolineati dal preside Squillace.
La ragione della nostra presenza all’estero durante la sospensione dei viaggi di istruzione è semplice: nel nostro istituto la durata degli stage non è, come più comunemente accade, una settimana, ma bensì due; ciò ha fatto si che il gruppo potesse partire per poi trovarsi a vivere il coronavirus per una settimana in “terra straniera”, in contesti che si conoscevano già e in cui si era conosciuti.
In quella settimana molti degli aspetti descritti dal preside Squillace si sono puntualmente presentati, quasi a volerne sottolineare la ricorsività in presenza di potenziali pandemie. Certo non abbiamo dato la caccia ai beni di prima necessità, ma di sicuro lo abbiamo fatto (non tutti, ma molti) per mascherine, disinfettanti e guanti, nonostante fosse stato spiegato che l’utilizzo delle mascherine è necessario solo per soggetti malati, e che l’accurata pulizia delle mani è norma igienica sufficiente.
Le voci si sono rincorse, soprattutto fra gli studenti più abituati a informarsi sui social che attraverso i canali ufficiali; quanti casi, dove, e soprattutto che misure si stavano prendendo per le scuole, chiuse in Italia ma per non per noi, ancora nel bel mezzo del nostro programma che, proprio nella prima settimana di chiusura, poi rinnovata con decisione del Governo ieri, domenica 1° marzo, ci apprestavamo, in una delle due località estere, a entrare nella parte più interessante del nostro soggiorno, quella della work experience.
In pratica dal lunedi 24 febbraio gli studenti hanno cominciato a recarsi nelle varie posizioni loro assegnate, dopo la prima settimana di corso in aula; farmacie, bar, gelaterie, alberghi, scuole elementari, asili nido, negozi sportivi e di altro genere, e anche una palestra. Il giorno dopo sono iniziati gli “allontanamenti” di alcuni di questi giovani alla prese con la loro prima esperienza di Pcto (Percorso per le competenze trasversali e l’orientamento), ex alternanza scuola–lavoro, all’età di 16 anni. La “certezza della pericolosità degli stranieri”, se non proprio “la caccia agli untori” sono diventate d’un tratto molto, molto reali.
Il primo caso di allontanamento nella località in cui mi trovavo personalmente è di per sé emblematico. Lo studente, che non presentava alcuno dei sintomi che possono indicare un caso sospetto di coronavirus, e che aveva lavorato con energia e grande soddisfazione per un’intera giornata, è stato “allontanato” il secondo giorno dallo stesso bar dove ci siamo recati a frotte per una intera settimana durante le pause per prendere caffè, tè, mangiare torte e toast molto gustosi perché era un bar molto carino, con personale cordiale e una atmosfera accogliente. Inoltre era comodo; si usciva dalla scuola ed era lì, proprio di fianco, “round the corner”.
Dopo l’allontanamento del barista in erba, fra l’altro entusiasta del lavoro e a cui era stato offerto non solo un caffè, ma il pranzo per tutta la settimana, non credo che nessuno di noi sia mai più entrato nel bar per una consumazione; lo studente barista che mi aveva portato il pranzo quel lunedì e preparato il caffè prima di essere “espulso” lo ha fatto solo per ritirare in due minuti la valutazione del (breve) periodo lì trascorso e indossando, per mio consiglio, la mascherina che aveva acquistato. Non era malato, non aveva neanche un “banale” raffreddore, ma ci era stato detto che nel bar un membro dello staff ha il sistema immunitario debole e che questo aveva determinato l’allontanamento dello studente.
Un secondo caso emblematico è stato quello di una studentessa che lavorava in un asilo nido. Come da prassi, noi docenti le avevamo fatto visita e l’avevamo trovata attorniata da bimbi piccoli, che poi aveva accompagnato fuori per la consueta passeggiatina prenanna (non consueta in un nido italiano, ma prassi nella località) tenendone uno per ogni mano. In questo caso siamo stati noi docenti, di comune accordo con la scuola che ha gestito il progetto, a togliere la studentessa dal posto di lavoro. Nei nidi, nasini che colano, raffreddori e soprattutto contatto fisico (stringere mani, prendere in braccio ecc.) sono la normalità e certo la studentessa non avrebbe gradito, al nostro rientro il 29 febbraio in Italia, risultare positiva al controllo della temperatura che è stato fatto in aereoporto a tutti noi. L’aspetto più interessante del suo caso è legato alla sua brevissima visita, da lei preannunciata mediante una telefonata, per ritirare all’ingresso del nido il foglio della valutazione; le hanno aperto e fatto trovare il foglio su di un tavolo, evitando qualsiasi contatto con lei.
Di contro, dei tre studenti che lavoravano in tre diverse farmacie – dove l’attenzione alla salute e alle norme igienico sanitarie è prassi – nessuno è stato allontanato, e una delle studentesse ha anche accompagnato il personale nella consegna a domicilio, su proposta della farmacia stessa. Soprattutto nessuna delle famiglie ha mostrato alcuna preoccupazione relativa alla presenza degli studenti, anzi, una signora ha portato una vassoio di cupcakes fatti in casa a coloro che, non potendo più proseguire l’esperienza di lavoro, si sono uniti al workshop organizzato in aula dalla scuola di appoggio.
La morale della favola (che favola non è)? La ricerca di quanto è vero non è affare del gruppo. Il gruppo non ha anima, cuore o cervello, ha solo istinto manipolato dai social, dai media, dalle “voci”, e nel gruppo non si guarda e non si vede nulla, che sia dalla parte del (potenziale) untore o (potenziale) appestato. L’esercizio della valutazione caso per caso, situazione per situazione, non è solo degli operatori sanitari chiamati a fronteggiare l’emergenza. È stato – e continua ora sotto altra forma qui in Italia –, attività necessaria al singolo in “terra straniera”.
Una considerazione certo è evidente: nulla come la realtà apre o chiude la mente, convincendo uno studente partito per la work experience con poca convinzione a tenersi stretto il “suo lavoro” mentre altri se lo vedevano tolto, un’altra a segnalare con tempestività di essere fisicamente molto debole e chiedere con grande dispiacere di essere tolta dal suo asilo, ma restando grata e felice della bella esperienza vissuta, ma anche un altro a darsi “malato” per starsene con gli amici nelle pause del workshop. Tutti affrontiamo l’imprevisto, ma ognuno sceglie con chi e come dialogare di questo “imprevisto”.
La morale, sembrerebbe, è che l’errore, in tutte le sue accezioni (il pregiudizio, la paura, l’inconsapevolezza) non è “pietra di inciampo” o, se lo è, lo può essere nel senso in cui le pietre d’inciampo vengono poste per ricordare le vittime dell’ingiustizia. Ricordano a chi le calpesta che il proprio cammino non dovrebbe essere uguale dopo averne incrociata una.