SCUOLA/ E coronavirus: gli studenti “ci stanno”, il problema è che sono fragili anche i loro sogni
E venne il coronavirus e improvvisamente ci siamo sentiti tutti molto effimeri. La vita quotidiana disarticolata; le certezze immediate, quelle a breve gittata, spazzate via; i dubbi e le domande che montano, le vecchie abitudini che tramontano; il senso di ansia, di paralisi, di qualcosa di più grave che deve ancora venire. E, ciò che forse è il peggiore dei mali, quell’incertezza che ti fa oscillare come un pendolo tra la facile spiegazione dell’allarmismo e la drammatica evidenza dei fatti: numeri del contagio che crescono, drastiche misure governative (scuole e chiese chiuse, stadi e locali di ritrovo interdetti, manifestazioni, feste, celebrazioni cancellate), continue raccomandazioni di ogni tipo.
Tutto questo si è abbattuto anche sul mondo della scuola italiana, non appena lombarda o veneta. I viaggi d’istruzione sono stati tutti cancellati, ovunque nello Stivale. Un disastro, una tristezza generale. I prossimi mesi, che promettevano stage linguistici all’estero, partecipazioni a convegni o concorsi nazionali, gite scolastiche di un giorno o più giorni, ora minacciano la solita routine, interrotta soltanto dalle vacanze di Pasqua. Troppo poco per chi aveva messo la bocca ad assaporare momenti mitici. In pochi giorni tutto è cambiato, tutto sta cambiando.
Ne parlo con i miei studenti, in un liceo laziale, dove per ora le notizie del contagio appaiono lontane, affare di chi vive nel Nord Italia, dalla Pianura Padana in su. Li guardo e li ascolto e li trovo molto informati e consapevoli. Viaggiano coi loro smartphone alla ricerca di notizie, leggono, cercano, trovano qualcosa. Elena si è fatta una cultura, sorbendosi anche una video conferenza di più di un’ora; Martina, già di prima mattina, è informata sugli ultimi sviluppi dell’epidemia; Matteo ha raccolto informazioni sulle probabili origini del virus.
Le loro reazioni non sono tutte uguali, sono molto variegate, come del resto sta accadendo in tutta Italia, come del resto accade tra gli adulti. Lorenzo sorride ironico ed incredulo: troppo allarmismo, secondo lui. Gli fa eco Simone, secondo il quale il problema vero siamo noi e le nostre paure. Flavia ribatte che ci sono fatti e numeri, non è la solita storia che la colpa è della TV. Beatrice non fa scelte di campo, ma parla della sua ansia crescente. È sicuramente più in ansia chi ha parenti al Nord, o amici, o corrispondenti, conosciuti in qualche stage all’estero, che raccontano di file interminabili ai supermercati, di città deserte, di strade vuote.
Chiara è indignata per certi comportamenti schizofrenici: c’è gente che pretende che in classe si tengano le finestre aperte per il ricambio dell’aria e poi il sabato sera va in discoteca, certo il luogo meno indicato, di questi tempi, se si vuole evitare un contagio. “Stia tranquillo, prof – mi dicono –, domani, martedì grasso, le discoteche saranno piene”. Beata incoscienza di chi il virus lo sente ancora lontano, non alla porta di casa, e non rinuncia per questo alla vita di sempre. “Non mi interessa”, commenta qualcuno scrollando le spalle. L’argomento dell’allarmismo eccessivo conforta una decisione già presa: non lasciarsi coinvolgere troppo dall’ansia. Non lasciarsi cambiare troppo la vita da questo intruso che non si sa cosa sia, cosa voglia, cosa c’entri.
Qui da noi non c’è ancora l’emergenza. Si può ancora scherzare e riderci sopra. Ma sarebbe ingiusto presentare la cosa solo così. Quello che noto nei miei ragazzi, che percepisco, è anche un crescente senso di responsabilità. Io posso anche prendere il virus, ma mi dispiace se lo attacco ad altri. E allora ecco che il profumo di Amuchina si spande in classe, ecco che ci si lava le mani, ecco che si diventa un po’ più disciplinati. Se bisogna cambiare, i ragazzi non si tirano indietro. Sono pronti. E se la scuola dovesse chiudere? Come si farà con lo studio, con i programmi? Le soluzioni si troveranno. La generazione due punto zero non ha di questi problemi. Si può studiare in chat. Oggi il web consente di lavorare da casa, figurarsi se fa problema studiare a casa!
Le soluzioni si troveranno, Matteo ne è certo. Beatrice propone una soluzione letteraria: eventualmente tutti a casa sua, in campagna, a raccontarsi cento novelle. Ma la battuta che mi resta più in mente è quella di Alessia: “Avevo un sogno, quello di andare quest’estate in Giappone. Ora non ce l’ho più”. E penso che siamo davvero effimeri!