Caro direttore,
la tragedia del coronavirus ha sconvolto la nostra quotidianità come solo la letteratura e il cinema avevano prefigurato. Parola (letteratura) e immagine (cinema) sono da sempre al centro dell’attività di chi, come me, insegna – e cioè apprende. So cosa significa essere docente universitario. Sono docente di liceo da 9 anni, direttore da 2. Sono uno storico e sono un padre. E la domanda che raccorda queste facce del mio essere è una sola: cosa ci sta succedendo?



Anzitutto, noi docenti siamo di fronte alla frammentazione radicale dello schema di base che sottende al nostro lavoro. 

A seguito della Rivoluzione francese e del periodo napoleonico, la formazione-educazione delle giovani generazioni è stata sottratta a una istituzione religiosa (la Chiesa) e assunta dallo Stato. In quel frangente – tragico anch’esso, anzi cesorio – lo Stato ha applicato l’unico schema di cui era in qualche modo padrone, ovvero l’esercito. 



L’esercito era, al principio del XIX secolo, l’unica istituzione organizzata capace di resistere agli sconquassi rivoluzionari, e non è un caso che il nuovo sovrano (l’imperatore) ne fosse un sommo rappresentante, e sommo per merito e per fortuna, assieme.

Napoleone strappò la tradizione formativa ed educativa sorta dal cattolicesimo europeo affidandola alle mani sovrane dello Stato. Necessitava di una nuova forma in cui arruolare un nuovo esercito, e la clonò dal suo mondo, il mondo militare.

Dunque le “classi” divennero – e sono ancora, nella nostra forma mentis – unità militari dove ciascuno ha un posto fisso (il banco, la cattedra) e la linea di comando è rigidamente verticistica: il programma, il preside, il docente, la lezione, gli esecutori – i nostri figli, come ragazzotti di paese arruolati a forza – leva di massa, alfabetizzazione di massa. Non discuterò qui se sia stato un bene o un male, o in quale misura rispettiva. Mi basta fissare il punto: le nostre scuole sono caserme ben diffuse sul territorio, in cui la trasmissione della “formazione” ha le sue regole e i suoi gerarchi. E, aggiungo, sostanzialmente funziona: io ne sono un prodotto, noi ne siamo dei prodotti.



Mi rendo conto che tra l’inizio del XIX secolo e il nostro inizio di XXI secolo molte cose sono cambiate, ma ritengo che la metafora di fondo nel nostro “fare scuola” risponda ancora sostanzialmente a quella impostazione d’emergenza.

In questo senso, aggiungo, il ruolo della famiglia era marginalizzato, se non annullato. È per questo che grandi film (L’attimo fuggenteLes choristes…) e celebri romanzi (Harry Potter tra gli ultimi) parlano al cuore di milioni di docenti e studenti mettendo in scena una sorta di “terra di mezzo”: un sistema scolastico in forma di comunità, dove docenti e discenti non solo lavorano insieme, ma soprattutto vivono insieme. È – sostanzialmente nella forma privata di istituzioni a loro modo elitarie – l’eco struggente e fascinante di un mondo perduto: le comunità monastiche che hanno salvato la cultura occidentale al crollo dell’Impero romano, le comunità universitarie (universitates docentium et discentium) del superbo XII-XIII secolo della nostra Europa. Così, anche i migliori tra i nostri colleghi rimpiangono il collegio-comunità (Pennac, Diario di scuola), e persino i più accaniti vetero-comunisti tra noi vagheggiano ancora un mondo della scuola dove viva una forma di “comunione”. Cristianesimo ateo.

Questi collegi, questi “spazio-tempo” posti fuori dal loro tempo erano – sono, quando esistono ancora – comunità, cioè famiglie, con ruoli non solo – non tanto – di ufficiali, subalterni e truppa, di guardie e ladri, ma di padri, madri, figli. Perché, sia detto in via brevitatis, ogni arruolato nel sistema scolastico napoleonico non era e non è altro che un forzato, un galeotto, che sente nel docente un aguzzino e nelle pause l’ora d’aria, nel tempo libero i campi aperti senza recinzioni dove correre a pieni polmoni.

E cosa ha salvato – cosa salva – il sistema dall’implosione a cui è costantemente esposto? Il sapere per alcuni (i docenti), l’intuire talvolta, per la maggior parte degli altri (gli studenti), che il tempo della formazione è uno e uno soltanto. Che se noi non conduciamo ogni nato di donna a compiere in 10-12 anni il lungo percorso che ha sottratto gli uomini alla Preistoria per consegnarli alla Storia – scrittura, lettura, parole, numeri, immagini… –, quel tempo non tornerà più. Perché la finestra temporale in cui educare una mano, un occhio, una mente, è breve. E perché sappiamo – sentiamo – che il sapere (e il saper fare) sono costitutivi del nostro essere.

[E sì, ma certo, vi sarà sempre una “formazione permanente”; ma, altrettanto certamente, questa avrà un senso solo se prima – prima, al tempo delle totipotenza delle nostre menti – si sarà seminato. Perché il tempo del raccolto non è il tempo della semina.]

Ora, cosa produce l’avvento del Covid-19 e la “chiusura” delle scuole? 

La grande paura che tocca tutti noi è anzitutto la perdita della certezza e della prospettiva: non ci sono più la sveglia del mattino e l’alzabandiera, non c’è più la voce che chiama a raccolta… – e per quanto tempo? Non lo sappiamo. Certo, ci auguriamo tutti che tutto torni “normale” al più presto, ma in realtà sappiamo che il tempo del raccolto è differito e che, con il trascorrere stesso del tempo, rischia ogni giorno di più di essere un raccolto misero. E il tempo non si può recuperare.

Lo dico avendo bene in mente il volto “illuminato” di tanti studenti alla notizia: “scuole chiuse”. Ma quanto dura questa luce di “libertà”? Ben poco, perché poi diventa un’ombra di dispersione, abbandono, mancanza di senso.

E, insieme, sentiamo e intuiamo che qualcosa di cesorio – di nuovo – sta accadendo. Qualcosa di imprevisto. 

Dunque, cosa ci sta succedendo? Noi viviamo il tempo della frammentazione.

Le classi sono dissolte, ognuno è trincerato in camera sua e prova a resistere, la catena di comando è impacciata, a volte silente o, peggio, impreparata.

Certo, ci stiamo attrezzando. I più previdenti tra noi erano già avanti, e guidano oggi l’innovazione, la trasformazione forzata a cui siamo tutti sottoposti. Lo dico da un piccolo avamposto di privilegiati: i nostri studenti – svizzeri, di lingua madre italiana – vivono in un contesto ricco, dove l’accesso alle più moderne tecnologie è un fatto scontato, dove ci è stato possibile “migrare” in una modalità “digitale” con un’accelerazione improvvisa ma cosciente e praticabile. Sì, insomma, parlo da privilegiato, persino ora che sono, che siamo diventati estensioni dei nostri schermi e dei nostri calcolatori.

E stiamo, per quanto ci è possibile, condividendo, aiutando, suggerendo a tutta quella magnifica creatività docente che si è attivata nelle ultime settimane per colmare l’abisso, la separazione fisica e spirituale delle nostre classi, la frammentazione dei nostri reggimenti, in uno sforzo rivoluzionario che alcuni scherniscono – la “casta” dei professori, perennemente in vacanza – e cui molti, attoniti, assistono, pregando che finisca: perché ora li hanno in casa, i loro figli discenti. I nostri figli sediscenti.

Perché tutti noi, ora, abbiamo bisogno di una nuova metafora. 

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