Ci sentiamo. Finisce sempre così la sua telefonata il mio amico Giuseppe. Ci sentiamo perché non possiamo incontrarci. Come tutti, come noi professori con i nostri ragazzi. Ma Giuseppe mi ha sorpreso: dall’alto dei suoi sessanta e tant’anni, oltre ogni sua ben conosciuta avversione per quanto sa di virtuale, o fasullo, come spesso lui dice, si è trovato a inventarsi un presente da smanettatore seriale. Sta più tempo al computer di quanto se ne stava alla scuola: cerca documenti, scrive introduzioni a poeti e poesie, stende testi esplicativi e commenti, redige e riscrive con maniacale precisione ogni passaggio delle diverse lezioni, carica sul registro elettronico video che ha scovato in ore di ricerca sui più diversi canali, sulle più svariate piattaforme didattiche. E poi, oggi, al telefono, mi ha confessato che infine si è deciso: ha abbandonato ogni remora da vecchio fustigatore di youtuber e si è consegnato alla rete.



Ogni mattina sta lì, con le sue classi di ragazzi che non devono smettere di crescere in questo tempo che qualcuno continua a chiamare sospeso. Fa le sue videolezioni scrivendo sulle pagine del registro il loro appuntamento quotidiano e mi aspetto di ascoltare da lui una qualche giaculatoria, una qualche litania di rimostranze contro questo tempo malvagio che gli tocca di vivere prima di andare in pensione. Ma niente, neanche un piccolo accidente o moccolo tirato a chissà quale dio del computer.



Piuttosto, mi ha detto che quasi l’altro giorno poco ci è mancato che gli scendessero pianti in diretta, come in una qualsiasi trashtrasmissione dei canali privati: quando ha visto Lucrezia, Paolo e Luisa; quando ha visto quegli altri di terza con gli occhi ancora addormentati nel video. E adesso è commovente, mi dice, vedere come seguono e chiedono, come vogliono restare appesi alle cose che piano, piano lui gli propone. Come siano onesti nel loro lavoro, non fingano nulla.

Giuseppe lo sa che mica si può fare una copia della scuola di prima: qui c’è da inventarsi ogni giorno, scegliere ancora più chiaramente quello che conta e quello che invece si può tralasciare. Ha sempre lo stesso fervore, Giuseppe. E se proprio deve spendere parole di rimprovero, le spende per quelli che, in un tempo così, che loro chiamano sospeso, sono solo capaci di attaccarsi ai regolamenti e ai cavilli, che sbandierano contratti e sentenze. O a quegli altri che bendano gli occhi e cercano chissà quale insulso rigore. Loro sì che non hanno capito cosa conta davvero.



Giuseppe è quasi convinto che la scuola, quella di prima, non riprenderà nemmeno, che probabilmente questa sarà oggi l’unica scuola possibile. L’unica scuola vera, allora, mi dice. Con un lavoro vero, con compiti e valutazioni che, nel loro progredire di pari passo alle proposte didattiche, consentiranno ai ragazzi di raccontare che hanno imparato, anche grazie a questo, a essere uomini, come dice l’amico Rosario Mazzeo.

Altro che tempo sospeso: questo è il tempo sorpreso, questo è il tempo appeso a ciò che conta davvero. L’immagine – o si dice la foto profilo? – con cui si apre la video lezione è quella della sua tazza da tè, nella quale compare l’inizio del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: un tè con Leopardi, dice Giuseppe. E come saluto per la prima settimana di scuola vera ha inviato la poesia Ora il profumo dei giardini dice di Elena Bono, che mi va di copiare qui: 

Ora il profumo dei giardini dice
che la pioggia è passata.
Sulle terrazze esce la gente
a respirare.
Che silenzio strano
come al principio del tempo.
S’ode distintamente
il cadere qua e là
di una goccia dai rami
e tra la ghiaia dei viali
il risucchio dell’acqua.
È buio verso la montagna
e lampeggia sovente:
presto verrà la notte
e con la notte, ancora, la tempesta.
Ora però sappiamo
quale conforto e che tristezza
sia questo stare insieme,
dopo che il temporale
chissà dove
ha portato i nostri cuori,
questo indugiare accanto
prima di separarci
ancora.
Ora che il buio viene,
solo adesso,
ai nostri occhi risplende
la luce di ogni viso
il brillar di ogni foglia,
e, nel silenzio che attende il primo tuono,
come è nuovo
il suono di una voce
lo stormir delle piante,
quel loro grande sospirare
senza dolore. 

Come a dire che questa non è la migliore delle scuole possibili, che dentro abbiamo una nostalgia profonda e infinita per quello che abbiamo lasciato, ma che proprio anche grazie a questa distanza ora sappiamo quale conforto sia questo stare insieme anche nel temporale e nel buio. Forse ha ragione Giuseppe, vecchio professore realista, a tenersi stretto a questa scuola possibile e vera. È da realista che sogna almeno di trovarsi a settembre con quelli di terza a fare l’esame: per non fingere, per essere uomini. E potersi abbracciare di nuovo. Ci sentiamo, Giuseppe.

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