Il tema della memoria storica si affaccia prepotente con una serie di richiami autorevoli e situazioni che per quanto di origine diversa riconducono allo stesso punto. Molte pagine della nuova enciclica di papa FrancescoFratelli tutti, sono dedicate alla memoria. Un intero paragrafo è intestato alla “fine della coscienza storica”. A giudizio del Papa è la “perdita del senso della storia che provoca ulteriore disgregazione. Si avverte la penetrazione culturale di una sorta di decostruzionismo, per cui la libertà umana pretende di costruire tutto a partire da zero”. Una persona vuota di storia, riflette ancora il Papa, è facilmente preda dell’ideologia, di qualsiasi forma di colonizzazione culturale, di operazioni di svuotamento di senso di parole come democrazia, libertà, giustizia, unità.

Bastano questi richiami (ve ne sono tanti altri nell’enciclica sui quali varrà la pena tornare) per aprire una riflessione non tanto sulla storia intesa come “materia” nella scuola, cioè sui programmi che non sono altro che “indicazioni”, ma sul senso, sulla prospettiva che la storia assume nella formazione dei giovani anche (ma non solo) grazie all’insegnamento che in ambito scolastico viene proposto. Nella scuola italiana, in forza delle presunte riforme dei programmi avvenute nelle stagioni politiche passate, la decostruzione della storia non è stata avvertita come un incidente, ma come un vero e proprio obiettivo didattico. Un qualunque testo di storia (ma potremmo dire il manuale di qualunque disciplina a sfondo storico) è destrutturato, polverizzato agli occhi di chi lo deve usare in una molteplicità di percorsi, richiami, spunti e giudizi. Lo storia che si insegna a scuola non è italiana, non è europea, non è occidentale. Si tratta di una storia globale, in cui il globalismo o multiculturalismo finisce per lambire l’indifferentismo storico. La storia è la storia di Nessuno. Si confonde la storia generale, cioè delle varie e diverse identità, con una panoramica senza soggetto che normalmente si risolve in una condanna generalizzata dell’Occidente. Che avrà certo le sue colpe, specie quella di essersi condannato al tramonto, ma di cui non si possono misconoscere le conquiste.

D’altra parte è anche vero, come recentemente ha sottolineato con vigore Galli della Loggia che “i popoli dell’Occidente si credono ancora il centro del mondo. A dispetto delle idee internazionalistico-democratiche che essi perlopiù professano, in realtà nel loro intimo sembrano credere di essere ancora i padroni indiscussi del processo storico, i soli capaci di pensarne i parametri in modo adeguato, e che nulla e nessuno potrà mai scalzarli da questo ruolo” (La linea di separazione tra civiltà e barbarie, Corriere della Sera, 16 settembre 2020).

Paradossalmente, la condanna che storicamente l’Occidente si è autoinflitto si risolve nella narcisistica celebrazione delle proprie disgrazie. Da questo punto di vista può essere stimolante il confronto tra America e Cina a proposito della memoria e del suo uso. L’ultimo numero della rivista di geopolitica Limes (8/20), dal titolo: È la storia bellezza! è dedicato all’uso geopolitico della storia. Un fascicolo molto istruttivo. Prende spunto dal fenomeno partito dall’America della distruzione di immagini e monumenti che richiamerebbero il passato colonialista e schiavista dell’Occidente per allargare lo sguardo alla storia degli altri. Per esempio, il nostro Cristoforo Colombo, già da tempo preso di mira, sarebbe responsabile del genocidio dei popoli precolombiani e quindi da censurare, come tanti suoi epigoni, eliminando i richiami simbolici che ci ripetono oggi le intricate fondamenta della nostra cultura. Si preferisce una storia decostruita, decontestualizzata ad una storia che cerca di spiegare e comprendere anche le contraddizioni. La storia è tale, infatti, se inserisce un fatto in un contesto, suggerisce ancora Limes. Ma, attenzione: mentre da una parte si abbatte con furia iconoclasta il simbolo culturale o religioso, dall’altra si agisce per ricostruire la storia ad uso del potere.

È il caso della Cina, dove è in corso un’operazione di revisione della memoria storica che porta a congiungere, nella persona di Xi Jinping, l’antica storia delle dinastie imperiali con l’attuale forma di governo, come se la cesura maoista a metà del Novecento non avesse avuto alcuna importanza. Eppure ricordiamo quanto impegno Mao impiegò a tagliare il cordone ombelicale con la Cina dinastica (ricordiamo tutti L’ultimo imperatore di Bertolucci).

Attinte queste informazioni da Limes, viene spontaneo dedurre che non c’è differenza tra la distruzione fisica dei simboli e la ricucitura dei secoli all’ombra di una bandiera. I due estremi si toccano ed è la storia a farne le spese. Ma ci è abituata. Basta por mente alla imponente operazione di distorsione degli sfondi storici in romanzi e serie televisive da Il nome della rosa di Eco alle serie fantasy Il Trono di Spade o Vikings, dove la storia medievale è ridotta a medioevo standardizzato o medievalismo, che, al di là degli effetti che le produzioni hanno avuto sul pubblico dei fruitori, ha fatto non poco arricciare il naso agli storici.

Non c’è dubbio, per giungere a qualche conclusione, che la ristrutturazione della memoria storica abbia a che fare drammaticamente con il nostro tempo. In due sensi. Il primo riguarda l’esigenza del recupero identitario in un contesto globalizzato che tende a deprivare le soggettività. Il secondo concerne le fonti del sapere storico che dovrebbero essere depotenziate della loro carica di aggressività ideologica (la storia costruita contro qualcuno) per tornare a cavalcare il terreno più propizio della comprensione dell’accaduto. E non c’è terreno migliore della scuola per fare ciò, a partire dalla buona disposizione che tanti insegnanti “non ideologici” hanno maturato negli ultimi tempi. E d’altra parte l’esigenza di comprendere le proprie radici anziché negarle emerge in continuazione. Non siamo forse curiosi di sapere perché lo pneumologo di Trump si chiami Brian Garibaldi?