La mamma di Giovannino Guareschi, Lina Maghenzani, era maestra elementare. Nata nel 1878, insegnò fino a settant’anni e oltre: di mezzo, vale la pena di ricordarlo, due guerre mondiali. La incontriamo, Lina Maghenzani, nelle pagine del Corrierino delle famiglie, la raccolta di racconti del 1954 i cui protagonisti sono i familiari stessi dell’autore. Ne Il diploma della signora maestra Giovannino intesse con la mamma un dialogo e le comunica che, dal ministero della Pubblica Istruzione, è finalmente arrivato il suo “Diploma di benemerenza di prima classe”.



Non che ci sia troppo da rallegrarsene: il Diploma contiene un errore (parla di 40 anni di insegnamento, ma sono 49), qualifica il servizio della maestra Lina Maghenzani con un “buono” che non dice neanche lontanamente l’abnegazione e l’amore con cui lei ha seguito i suoi alunni; ma soprattutto – ed è la cosa più grave, quella che fa davvero imbestialire Giovannino – è arrivato troppo tardi, il 17 ottobre del 1950: la maestra Lina Maghenzani se n’era andata il 13 luglio di quello stesso anno.



Guareschi, come detto, non la prende bene: al pensiero che la sua mamma è stata privata della gioia di un giusto riconoscimento, il suo cuore – come egli stesso scrive – “è pieno di veleno” e lo scrittore, con una ironia risentita assai più del solito, irride “l’ignavia statale” e la “sordida indifferenza burocratica”. Vicenda esemplare, se è permesso l’accostamento.

In tempi come i nostri, che una guerra mondiale la stanno anch’essi sostenendo, ci sarebbero mille motivi per prendersela con l’ignavia statale e l’indifferenza burocratica, che non han pensato a nulla nei mesi estivi e ora tirano fuori decreti policromatici uno dopo l’altro. Per la scuola, a onor del vero, i “piccoli ignoti uomini” del ministero, qualcosa l’hanno pensata: ad esempio, hanno preso i famosi, vecchi, arcinoti compiti per casa e li hanno ribattezzati “attività asincrone” perché, quando gli alunni le svolgono, il professore non c’è…



E se, nel lockdown primaverile, l’impreparazione generale aveva costretto tanti a una improvvisazione creativa fatta di strumenti approssimativi ma duttili, ora la didattica a distanza è stata irreggimentata in linee, piattaforme, procedure rigidissime.

Stremati, perché oberati da mille incombenze, i professori: lezioni e supplenze la mattina; e poi, al pomeriggio e fino a sera, ancora ore e ore di fronte allo schermo per programmazione, consigli, incontri con le famiglie e preparazione delle attività dell’indomani, tanto da sentirsi “una pallina gialla inseguita da Pac-Man, di corsa e sempre sul punto di essere divorata”.

Confusi e spaesati i ragazzi, ai quali la scuola, la vita a scuola, manca come l’aria: “Non morirò di Covid, morirò di depressione” ha detto un ragazzino pieno di vita e interessi del secondo anno di Scientifico.

Ma la maestra Lina Maghenzani, ci dice Giovannino Guareschi, “non si stancava mai di lavorare”. Le cose stanno proprio così. C’è chi non si stanca di lavorare, e anche se si stanca, va avanti, perché i ragazzi sono lì, che aspettano.

Accadeva prima del Covid e sta accadendo pure di questi tempi; tengono duro, gli insegnanti, e – magari smoccolando un po’, ogni tanto – s’inventano qualcosa che si rivela più forte della fatica, della confusione e della solitudine davanti allo schermo. Come una mano d’aiuto ad un collega più anziano che con il pc proprio non ce la fa. O come l’apertura dell’aula virtuale quando ancora mancano 15 minuti all’inizio della lezione; non per cominciare prima (più di tre quarti d’ora non si può), ma per far sentire qualche nota di musica classica.

E scoprire, con sorpresa, che gli alunni – uno, due, tanti – si collegano, e stanno lì ad ascoltare, grati per la musica; e perché qualcuno li aspetta.