Scuole di ogni ordine e grado chiuse, con attivazione della didattica a distanza nelle zone rosse. Nelle aree in cui le Regioni abbiano adottato misure più stringenti per via della gravità delle varianti, nelle zone in cui vi siano più di 250 contagi ogni 100mila abitanti nell’arco di 7 giorni e nei casi di eccezionale situazione di peggioramento del quadro epidemiologico, la chiusura scatta con un meccanismo in pratica automatico, pur se a prevederla deve essere un’ordinanza dei governatori. Mario Draghi ha firmato il suo primo Dpcm con le regole che saranno in vigore dal 6 marzo al 6 aprile. E proprio la scuola è stata al centro di una discussione che ne ha ritardato l’emanazione. Alla fine hanno prevalso il parere del Cts, l’orientamento del governo e le indicazioni di alcuni presidenti di Regione, preoccupati per l’esplosione dei contagi (per esempio, +70% in un mese in Emilia-Romagna) proprio fra gli studenti e il personale scolastico, legati al diffondersi delle varianti.



Scelta, dunque, inevitabile? “La crisi che questa pandemia rivela – risponde Adolfo Scotto di Luzio, professore di Storia della pedagogia all’Università di Bergamo – è dal mio punto di vista la perdita di una qualunque capacità di direzione unitaria del sistema scolastico, mentre invece a prevalere è sempre e solo il particolarismo italiano. La scuola oggi non ha più un principio di comando chiaro, il comando si è frantumato in mille rivoli”. E sul problema serissimo del recupero delle ore di didattica in presenza perse in questi mesi? “Bisognerebbe pensare a una didattica rinforzata e intensiva, con personale straordinario a partire dal prossimo anno”.



Scuole automaticamente chiuse nelle zone rosse e facoltà di chiuderle in quelle, gialla o arancione poco cambia, ad alto contagio, cioè con 250 casi positivi ogni 100mila abitanti. Scelta inevitabile? E questo ennesimo lockdown che effetti sortirà sulla scuola italiana e sui ragazzi?

Certo, la situazione è nuova rispetto a fasi anche recenti e la novità pare essere costituita dalla diffusione delle varianti del virus che risultato più contagiose. Restano, naturalmente, invariati gli effetti di questa nuova chiusura sugli studenti i quali, indipendentemente dalla natura del contagio, pagano un prezzo molto alto alla perdita netta di giorni di istruzione. Ma questo ragionamento, di fronte all’evidenza dura del contagio, può apparire trascurabile e secondario. Come si dice, meglio un somaro vivo che uno scienziato morto. Quello che però a mio avviso si può notare è, ancora una volta, la risposta variegata all’emergenza.



In che senso?

Ci sono regioni che chiudono tutto e chi invece prova a modulare la propria risposta. Il contagio resta lo stesso e il rischio pure, ma a parità di colorazione (e spesso pure in anticipo su questa) gli enti locali hanno reagito e continuano a reagire in maniera molto diversa. La crisi che questa pandemia rivela è dal mio punto di vista, la perdita di una qualunque capacità di direzione unitaria del sistema scolastico, mentre invece a prevalere è sempre e solo il particolarismo italiano.

Riaprire in sicurezza è stato il grande problema che ha accompagnato tutta la scorsa estate prima della riapertura a settembre. Nonostante i protocolli, le scuole non sono più luoghi sicuri? Cosa doveva essere fatto che non è stato fatto?

Non credo si possa rispondere a questa domanda con un minimo di onestà intellettuale. Perché la domanda significa “che cosa avrebbe fatto lei se si fosse trovato al posto del ministro?”, ma appunto nessuno di noi si è trovato o si trova a prendere decisioni in frangenti di emergenza. La stragrande maggioranza di noi si adegua alle indicazioni che riceve. Quello che si può dire è che, se guardiamo ai mesi che stanno alle nostre spalle, per un verso, ripeto, è mancato qualsiasi principio di direzione unitaria del sistema scolastico, con decisioni contraddittorie e labili; dall’altra parte, però, dovremmo pure riconoscere che il nostro ordinamento scolastico è concepito in modo tale che le decisioni prese non possano che essere contraddittorie e labili. Il ministro non decide più niente e tuttavia tutti lo accusano. La scuola oggi non ha più un principio di comando chiaro, perché il comando si è frantumato in mille rivoli. Da questo punto di vista, il caos è il prodotto necessario delle scelte compiute in questi ultimi trent’anni. Questo dovrebbe essere il vero terreno di un confronto veritiero sulla scuola.

L’idea del nuovo comitato di esperti del ministero sarebbe quella di aprire gli istituti anche d’estate, non per fare lezione o recuperare i gap d’apprendimento, ma proponendo attività educative di ogni tipo: artistiche, sportive e musicali. E dunque non si tratterebbe di un prolungamento della scuola per tutti. Che ne pensa?

Non mi pare un’idea brillante. È l’esito di una ritirata. Prima si era partiti a spron battuto per prolungare l’attività didattica, poi di fronte alla sacrosanta ribellione degli insegnanti si è preferito fare marcia indietro e per non perdere del tutto la faccia si è tirata fuori questa insipida ricetta stilata nel solito “pedagogichese”, il gioco, la socializzazione, e così via. Gli insegnanti non hanno mai smesso di fare lezione. Il punto è che il paese è così arretrato da avere una infrastruttura digitale penosa (dopo vent’anni di piani per la scuola digitale).

Allora, di chi è la colpa?

Non certo dei professori o delle maestre che hanno fatto la loro didattica di emergenza. Ci sono degli evidenti ritardi formativi, accumulati in questo lungo anno di pandemia.

Il sistema è in grado di rilevarli?

Sarebbe il caso di intervenire per casi specifici e per aree di emergenza scolastica, non genericamente per il solo gusto di tormentare gli insegnanti. Due cose, però, bisognerebbe pure considerare.

Quali?

Primo: perché i docenti che hanno fatto il loro lavoro devono lavorare di più? E come fare a convincere gli studenti, soprattutto quelli scolasticamente deboli, a restare tra i banchi con 30 gradi all’ombra? Prima di parlare, i cosiddetti esperti dovrebbero porre mente a quello che si apprestano a dire.

Dati elaborati da Save the Children dicono che i bambini a Milano sono andati in classe 112 giorni contro i 48 di quelli che vivono a Bari e che nel mondo si sono persi in media 74 giorni di scuola. Come si recuperano le ore di didattica in presenza perse lo scorso anno, soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno?

È un problema serissimo. Ma appunto come fare? Bisognerebbe pensare a una didattica rinforzata e intensiva, con personale straordinario a partire dal prossimo anno. Corsi di recupero pomeridiani, accrescimento dell’orario scolastico, programmi ad hoc. Ci vorrebbe una vasta mobilitazione civile. Bisognerebbe istituire un servizio civile nazionale a scopo educativo che coinvolga laureati e giovani ricercatori. Bisognerebbe immaginare un vero e proprio corpo civile costituito da ventenni da spedire nelle zone dell’emergenza educativa italiana. Sarebbe anche un modo serio e intenso per fare esperienza di un paese che oggi è largamente sconosciuto ai suoi giovani. Non è possibile pensare di conoscere l’Italia perché si va al mare al Sud, o in gita scolastica a Venezia.

Test Invalsi: a questo punto, vanno fatti anche ai tempi del Covid?

Secondo me, sì; e non capisco perché gli insegnanti siano così ostili. Un test che misuri gli apprendimenti e nient’altro, rinunciando a qualsiasi ambizione, di dubbia legittimità teorica e politica, a fornire indicazioni su come si debba fare scuola. Abbiamo semplicemente bisogno di capire a che punto siamo. Tutta la tematica della rilevazione degli apprendimenti invece, e in questo gli insegnanti un po’ di ragione ce l’hanno, è proposta all’opinione pubblica in termini punitivo-correttivi. Mentre invece un test ben concepito sarebbe necessario per impostare un piano nazionale di recupero.

Come si può far rinascere la scuola dopo la pandemia?

La scuola è priva da tempo di qualsiasi ragionamento che parta dalla scuola e non da una qualunque finalità di tipo extra-scolastico. Della scuola dovrebbe occuparsi la cultura italiana, storici, filosofi, letterati, non gli economisti e certo non la Confindustria. A scuola si va per crescere e le persone hanno diritto a ricevere un’istruzione indipendentemente dal fatto che poi vadano o meno a lavorare e dove. Il punto che si dimentica è che non abbiamo altro modo di crescere se non a contatto con modelli culturali. Più sono ricchi e complessi questi modelli più la crescita delle persone è completa e soddisfacente. Il brutale funzionalismo di chi vuole ridurre la scuola a qualche forma di familiarizzazione con il lavoro e con il modo di funzionare dell’economia travisa radicalmente e, aggiungo, pericolosamente i problemi cruciali dell’educazione dell’uomo.

(Marco Biscella)

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