“Per ogni cosa c’è il suo momento”. È finito il tempo per riflettere, ora è tempo di agire.

Il lockdown ci ha lasciato addosso un senso del tempo e un senso della paura. Allo scoppio della pandemia abbiamo sperimentato la violenza dell’imprevisto, una dinamica che ha messo in discussione la nostra identità, ci ha costretto a riconsiderare il modo in cui viviamo e usiamo il nostro tempo. Dopo due anni, anche a fronte degli ultimi eventi geopolitici, quali risposte ci siamo dati?



I primi due mesi di questo nuovo anno ci hanno forse mostrato quanto il virus sia stato in realtà un pretesto, una distrazione che ha messo in discussione la nostra capacità di dare autorevolezza alle nostre risposte. Le nostre convinzioni sono state più volte sovvertite e si sono, in brevissimo tempo, relativizzate, cancellando la differenza tra quello che era politicamente corretto e quello che era assolutamente incontrovertibile. Tutto scorre, tutto passa, ma la guerra rimane madre impietosa di tutte le cose, come peraltro Eraclito diceva e come l’attualità del tragico conflitto in Ucraina ci sta proponendo.



Abbiamo sperato che il Covid ci riportasse all’essenzialità delle piccole cose, al tepore degli affetti domestici e ci siamo illusi di controllare quell’imprevisto, vaccinandoci e mostrando con fierezza i nostri green pass. Ma la paura, alla fine, non è passata. Si è nutrita del nostro falso coraggio, delle nostre routine, ed è tornata ad abitare i banchi di scuola, le mura di casa, i luoghi di lavoro.

Mentre noi adulti tentavamo di sopravvivere, abbiamo smesso di vivere, per i nostri figli e con i nostri figli e li abbiamo lasciati soli o peggio alle loro solitudini di gruppo. Abbiamo abbandonato il villaggio.



L’Ordine degli Psicologi ha da subito richiamato alla necessità di affrontare il tema del disagio psicologico e antropologico che si stava generando nel dramma. In questi due anni, psicologi ed educatori ma soprattutto gli insegnanti, quotidianamente impegnati nella prima trincea che è la scuola, sono stati chiamati a sperimentare – e letteralmente a inventarsi – nuove forme di comunicazione e di intervento.

Quanto è stata tiepida la proposta adulta, quanto la cattiva pedagogia si è nel tempo trasformata nella pratica dell’assecondamento! Il compito dell’adulto è di accettare che i giovani corrano dei rischi, non auspicando per loro una vita tranquilla e consolata dalla mercificazione capitalista. Chi lavora sul campo, psicologi ed educatori, raccoglie quotidianamente un disagio che è nella e della normalità e che è fatto di ansie, di disturbi alimentari, di crisi depressive, di panici incontrollati.

E la scuola dov’è? La scuola, che è il luogo dove l’adulto può dimostrare (magister) e che dovrebbe essere non solo nel tempo, ma in qualche modo segnarlo, si è dimostrata assolutamente incapace di rispondere a una realtà che domandava e che esigeva una risposta. Ma la scuola attualmente è imbrigliata in rivendicazioni sindacali, in azioni di protesta vuote e controproducenti assecondata da insegnanti che, abiurando al proprio ruolo di autorità simbolica e reale, si pongono simmetricamente nella relazione con i propri studenti che di tutto hanno bisogno tranne che di guide confuse, prigioniere di protocolli e di ideologie che non reggono l’urto della realtà.

La didattica a distanza (Dad) non ha fatto che corrompere la possibilità di tornare ad insegnare nella presenza e con il corpo. Se ancora ce ne fosse bisogno abbiamo trovato conferma che la virtualità produce solo delirio e che i nostri figli, come novelli narcisi, annegano specchiandosi nei loro schermi. Il fenomeno dei nostri hikikomori, i sepolti in casa, documenta a chi lavora con il disagio psicologico che l’adulto, genitore o insegnante, è chiamato adesso più che mai a provocare e rievocare il desiderio di vita dei ragazzi. L’unica alternativa è essere spettatori dei modi confusi con cui agiscono le loro pulsioni di morte: il ritiro, l’isolamento, la fuga o, di segno opposto ma di valore identico, la violenza delle gang o l’annichilimento dei Neet.

Ma i nostri ragazzi e i nostri bambini hanno anche sfoderato risorse inaspettate e straordinarie. Hanno visto, anche e per fortuna, tante maestre e tanti professori pronti a mettersi in gioco e a cambiare rotta e li hanno seguiti. Occorre agire per non perdere la preziosissima possibilità di sperimentare un nuovo modo di fare scuola, di essere presenti, di misurarsi con strumenti diversi, magari adattandosi a percorsi insoliti.

Dati alla mano: oggi, 8 persone su 10 mostrano un disagio psicologico. Il ministero della Salute ha promesso di investire 20 milioni di euro nel supporto di specialisti, cooperative, centri. È attesa nelle prossime settimane l’attivazione del Bonus Psicologo, ovvero un pacchetto di sedute terapeutiche per chiunque lo richieda, senza distinzioni. Ma al di là dei numeri ci sono storie e vite e incontri. Al di là dei numeri ci sono Laura, Giovanni, Alessandra, Karen e tutti gli altri ragazzi che ti guardano smarriti, sperando che tu capisca che è il tuo momento, e si attendono di essere confortati e che qualcuno scelga per loro, perché non sono capaci né di “intendere”, cioè di capire, né di “volere”, cioè di decidere. Chi sta con i ragazzi deve, senza sostituirsi a loro, ascoltarli, prenderli per mano e se necessario afferrarli!

Concretamente di fronte a questi ritiri, a queste assenze che si protraggono anche protette dagli imbarazzanti alibi che nascondono una complicità soprattutto genitoriale, scuola, famiglia e specialista stanno concordando protocolli e modalità di intervento che facciano finalmente vedere ai ragazzi che gli adulti sono insieme, che sanno dove andare e che, pur non avendo tutte le risposte, ci stanno mettendo energia e coraggio per affrontare le sfide della quotidianità. Senza questa passione educativa e quindi terapeutica non riusciamo a essere credibili e anche i fondi stanziati non serviranno. Saranno solo un ulteriore tentativo di rattoppare goffamente un disagio che ha radici ben più profonde. Questo disagio deriva da un fallimento epocale che stiamo attraversando e che, dobbiamo riconoscere, è un fallimento tutto adulto. Fallimento della cultura, dell’informazione, della storia, del diritto, dell’educazione all’idealità e ai valori. Non sappiamo più che cosa tramandiamo. Ed è proprio questa assenza di significati e di senso che produce psicopatologia. La percezione di assurdità che i nostri ragazzi vivono compromette il principio di realtà che sostiene motivazione e capacità di progettualità futura.

I genitori e gli insegnanti devono imparare ad accompagnare i nostri giovani perché dalla qualità e dalle sinergie tra famiglia e scuola dipende l’esito del processo educativo. Nella mia visione, che poi è confermata anche dall’esperienza quotidiana di rapporto con gli adolescenti con le loro angosce e con le loro sofferenze, la scuola deve diventare uno spazio comune, un luogo dove i genitori non sono utenti e gli insegnanti sono più che formatori, un agorà dove transitare e discutere che bisogna realmente occupare, affinché diventi un laboratorio reale di pensieri e opere che consentano, in ultima analisi, la cosa più importante e semplice: che i ragazzi incontrino dei “maestri” che gli mostrino come stare al mondo.

La vera emergenza, quindi, è di conferire senso a quanto sta succedendo, affinché i nostri figli possano raccogliere un’eredità che permetta loro di abitare una terra drammatica, ma non desolata, di ripopolare il nostro villaggio. Solo così tutto quanto stiamo vivendo non sarà una maledizione, ma un’opportunità, cioè una speranza.

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