Il tema prioritario che lo scenario della guerra in Ucraina presenta all’attenzione di studenti e insegnanti non è anzitutto se sia da sostenere la resistenza degli ucraini di fronte all’invasione russa o se sia più opportuna una loro resa con onore. Se ne discute sui giornali con fondate motivazioni da una parte e dall’altra. Non è questo il punto.



Il tema di fondo è come ci si forma un giudizio su quanto sta accadendo. È una questione di metodo più che di contenuto. Ma come ci si forma un giudizio? Anzitutto nell’esperienza della realtà che ci provoca e ci pone di fronte a un dato: quello di una invasione in atto. I due milioni di profughi dall’Ucraina, donne e bambini soprattutto, sono un dato irreversibile, inconfutabile: sono nelle nostre città europee, sono a migliaia in Italia, vittime incolpevoli di una catastrofe che non può certo essere ridotta a una tattica di Zelensky per ottenere gli aiuti dell’Occidente.



Si dice da chi nega l’evidenza che distruzione e profughi ci sono sempre stati: sia quando gli ucraini combattevano i separatisti del Donbass, sia quando la Nato bombardava la Bosnia nel 1995. Ma lo si dice a sproposito, perché quei disastri non giustificano quest’ultimo e perché, inoltre, se non si trattasse di invasione ma di intervento speciale per demilitarizzare un territorio, il popolo che lo abita dovrebbe esultare all’avvento dei liberatori. E non pare che ciò stia accadendo. L’esperienza della realtà, farsi carico dei profughi, ascoltarli, è il primo antidoto dal filtro dell’ideologia.



Il secondo criterio di giudizio risiede nella scelta delle fonti di informazione riguardanti non solo le circostanze immediate, ma anche il contesto storico-politico degli eventi. Apparentemente le fonti sono tante, diversificate, alcune obiettivamente credibili, altre meno. In molte fonti (non solo italiane) prevale emotività, pregiudizio, distorsione. Si può tentare con i ragazzi un confronto tra le fonti (giornali, tv, radio) per verificarne l’attendibilità, ma in questa fase rischia di essere un esercizio accademico. Meglio fidarsi (la conoscenza nasce sempre da un atto di fede) di quelle che manifestano autorevolezza, non tanto perché espressione di potenti network, quanto perché aperte a farci comprendere la totalità dei fattori che sono in gioco. La guerra in Ucraina sta scuotendo assetti che sembravano consolidati dalla fine della seconda guerra mondiale e soprattutto dalla fine dell’Urss. Questi assetti, oltre che ai singoli governi e a chi li dirige, sono stati affidati in gestione a organismi internazionali (l’Onu anzitutto) la cui esistenza è giustificata solo dal mantenimento della pace. Sembra giusto porsi la domanda sul significato della pace che questi organismi promuovono e perché non abbiano funzionato, in questa e in tante altre occasioni.

Ma i fattori non si dispongono oggi solo sul piano della geopolitica. Essi, terzo criterio di giudizio, affondano le loro radici nella storia. Si tratta di un versante delicato del problema che stiamo trattando, per il fatto che la storia non è il passato, ma una sua riscrittura. Essa ha o non ha senso, sulla base, ancora una volta, dell’apertura dell’intelligenza ai veri protagonisti degli eventi. Putin e Zelensky o i rispettivi popoli? Se si guarda alla storia dei popoli, di questi due in particolare: il russo e l’ucraino, la guerra appare ancora di più una bestialità, figlia di un progetto che tende a scardinare la comune matrice cristiana delle due entità. La Russia è nata da Kiev, come sappiamo. Ora, per volersela annettere, è come se Putin volesse dire al mondo, ben oltre la rivalità verso una Nato non certo innocente, che la creazione di una nuova terra è frutto di uno sforzo militare, del rifacimento di un pezzo di mondo che deve avere come religione il potere del Nulla. Tutto il contrario di quanto la storia (per come la possiamo e la sappiamo scrivere) vuole mostrarci.

Potrà reggere tutto questo alla prova dei fatti? Probabilmente no, anche perché, come diceva fra Cristoforo: “Verrà un giorno…”.

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