Fra chi oggi scrive e parla della scuola molti insistono in modo perentorio sulla necessità di abbandonare metodologie considerate vetuste per abbracciarne di nuove più in sintonia con i ragazzi di oggi. E nei decreti e nelle ordinanze ministeriali ritorna periodicamente il tentativo (illusorio) di costringere gli insegnanti a cambiare la didattica per via burocratica, per esempio obbligandoli a riempire schede prolisse e spesso astruse, oppure abolendo i voti e sostituendoli con lettere e giudizi analitici.
Una particolare acrimonia viene riservata alla “lezione frontale”, che, oltre a venire dipinta come intrinsecamente noiosa e irrelata, viene vista dai più accaniti come testa d’ariete di un’impostazione “trasmissiva” della scuola. Aggettivo che, a essere benevoli, si comprende come rivolto alla sola modalità didattica e relazionale; a esserlo un po’ meno, sembra indicare proprio il rifiuto di trasmettere ai ragazzi il patrimonio culturale di una nazione, cioè la sua identità. Partendo dalla seconda accezione, il filosofo e insegnante liceale François-Xavier Bellamy ha scritto qualche anno fa I diseredati, ovvero l’urgenza di trasmettere, un saggio acuto e appassionato sull’irrinunciabile compito delle società occidentali di tramandare la propria eredità culturale, contro l’idea che “ogni ragazzo possa produrre da sé il proprio sapere”.
In realtà è necessario che ogni docente, oltre a superare una selezione iniziale che ne accerti anche motivazioni e attitudini, conosca vari approcci didattici, in modo da adottare quelli più utili a seconda degli argomenti, oltre che per evitare una possibile monotonia nell’insegnamento. Come i medici non hanno una sola medicina per tutti i mali, così gli insegnanti dovrebbero disporre, oltre che di una solida conoscenza disciplinare, di una varia attrezzatura metodologica. Per questo motivo, più che di “innovazione” della didattica e, peggio ancora, di “rivoluzione”, sarebbe meglio parlare di “arricchimento” della didattica come impegno ordinario di ogni insegnante.
Del resto la libertà metodologica, che viene garantita dalla Costituzione e dalle leggi, si basa anche su solide motivazioni psicologiche, dato che lo stile con cui si insegna ha a che fare con la personalità del docente, con i suoi punti di forza, i suoi limiti, le sue capacità relazionali. In parole povere, è normale che ci siano delle preferenze individuali in fatto di metodo. E di fronte a nuove proposte didattiche deve essere libero (direi “in scienza e coscienza”) di accettarle, tralasciarle, modificarle secondo un unico criterio: quello di sentirsene potenziato. Purtroppo è frequente sentir fare la caricatura di un metodo nel caldeggiare l’adozione di un altro. In un convegno dell’anno scorso una relatrice esclamò sarcasticamente a proposito dell’interrogazione: “Come godiamo noi insegnanti quando sentiamo ripetere parola per parola quello che abbiamo detto!” E sul sito dello stesso convegno c’era anche la spiegazione del metodo della “classe rovesciata”, basata sul confronto con una lezione frontale. Quest’ultima era esemplificata da una situazione in cui, mentre il docente parla alla lavagna, c’è un allievo che scarabocchia, un altro che pensa ad altro e così via. Ma veramente qualcuno può negare che una lezione di quel tipo può essere chiara o confusa, noiosa o affascinante? Del resto anche sulla lezione frontale ci si può aggiornare per essere più efficaci.
A proposito della possibilità di “arricchire” il bagaglio metodologico, una possibilità trascurata dalla scuola italiana soprattutto nel livello secondario è il metodo seminariale. L’aggiornamento è considerato esclusivamente o quasi una relazione tra chi sa (l’esperto) e chi deve imparare. Il seminario, basato su un rapporto paritario tra i partecipanti, è invece tipico delle professioni. Riconoscendosi e sentendosi riconosciuti come esperti ci si arricchisce e ci si motiva vicendevolmente. Ha scritto George Bernard Shaw: “Se io e te abbiamo una mela ciascuno e ce le scambiamo, abbiamo sempre una mela ciascuno; ma se ognuno di noi ha un’idea e ce le scambiamo, allora abbiamo due idee ciascuno”.
È facile immaginare quante competenze, esperienze riuscite, soluzioni inedite vanno perdute nella scuola in assenza di occasioni di confronto, mentre potrebbero essere fatte utilmente circolare attraverso un frequente scambio di idee. Il che ovviamente non impedisce di partecipare ad altre occasioni di aggiornamento in base alle proprie specifiche esigenze e curiosità. Questa modalità, oltre a tutto, faciliterebbe la formazione di quel senso di appartenenza a una comunità professionale della cui mancanza ci si lamenta spesso. Per promuovere questa pratica sarebbe utile formare come conduttori alcuni docenti per ogni scuola (basta qualche ora), mettendoli in grado di facilitare il lavoro comune e di provvedere all’organizzazione e, volendo, a una qualche forma di documentazione degli incontri. Sono peraltro competenze utilissime per rendere più efficaci anche altri tipi di riunioni scolastiche, troppo spesso caratterizzate da confusione, inconcludenza, perdita di tempo.