“Strano, ma vero” non è solo il titolo d’una simpatica rubrica della Settimana Enigmistica. Può servire, infatti, anche a stigmatizzare un comportamento tipico dell’italiano medio, pronto ad invocare la rivoluzione fin tanto che non la può fare.

Da decenni, forse da sempre (almeno da quando la cultura è diventata la figliastra di una società con figli eletti che si chiamano economia, finanza, mercato e via discorrendo), per buona parte dell’opinione pubblica fare l’insegnante significa scegliere una professione che richiede poco impegno in termini di tempo (le famose 18 ore di cattedra e gli inesistenti 3 mesi di vacanze estive, cui si aggiungono i giorni per i ponti di Natale, Pasqua e altro) e di lavoro qualificato, tanto che ogni buon padre – e madre – di famiglia si sente in diritto e in dovere di contestare l’insegnante del figlio. La cronaca abbonda di esempi in tal senso.



Poi scopri che la maestra di scuola materna ed elementare è figura che ricade nell’elenco delle professioni usuranti riconosciute dall’ultima Legge di bilancio statale e ti aspetti che quella stessa opinione pubblica gridi allo scandalo: ma come, un lavoro di così poca fatica e scarso valore! Invece niente. La legge passa, Draghi resta e buona notte. Silenzio di tomba, per usare un’espressione consona a questi primi giorni novembrini.



Da queste stesse colonne, Sergio Luciano ha scritto giustamente che “la legge è timida per non far arrabbiare Salvini e Di Maio”, con riferimenti a Quota 100 e a Reddito di cittadinanza.

Fa invece arrabbiare chi, pur insegnando, non ha la “fortuna” di fare la maestra, ma la “sfortuna” di lavorare in una scuola media, inferiore o superiore che sia. Metodi, preparazione, utenza diversi, ovvio, ma stessi obiettivi e stesso datore di lavoro, il ministero dell’Istruzione. Il che vorrà pur dire qualcosa. Vengono brutti pensieri: non sarà che questo diverso trattamento pensionistico derivi in gran parte dal fatto che la categoria privilegiata dalla Legge di bilancio è composta per il 99% da donne, in questo momento le più vezzeggiate a fini elettorali? Vale il vecchio detto: “A pensar male si fa peccato, ma ci si azzecca”.



Chissà perché insegnare ai bambini deve essere considerato più faticoso che insegnare ai loro fratelli di qualche anno più grandi, magari in classi da 30 alunni, magari con problemi di droga, bullismo, violenza che sono in tanti casi all’ordine del giorno. Chissà perché. Zitti i sindacati, complici di questo agire con due pesi e due misure; zitti professori e professoresse “per non dividere la categoria”.

Ma siccome la categoria è divisa e prona ai diktat governativi – di qualunque governo – dal tempo dei tempi, aggiungiamo dell’altro che forse è anche peggio. Nel medesimo elenco di professioni usuranti che include maestre e operatori della cura estetica (sic!) troviamo, per esempio: agricoltori, conduttori di impianti e macchinari per l’estrazione e il primo trattamento dei minerali; operatori di impianti per la trasformazione e lavorazione a caldo dei metalli; conduttori di forni ed altri impianti per la lavorazione del vetro, della ceramica e di materiali assimilati. Avete letto bene? Maestre ed estetiste trattate alla stregua di contadini, minatori, operai metallurgici, addetti a forni ed altiforni. O forse sarebbe meglio invertire il ragionamento: i secondi trattati alla pari delle prime.

Ora, c’è da mettersi le mani sugli occhi per non accorgersi della differenza enorme (in termini di ore e qualità di lavoro) tra una categoria e l’altra. Non certo per sminuire il ruolo di chi ogni giorno, superando difficoltà inimmaginabili solo un paio di decenni fa, varca la soglia dell’aula per gettare le basi civili e culturali di una società dalla quale, come nella migliore delle beffe, spesso riceve in cambio indifferenza e sarcasmo. Ma per un elementare senso di giustizia che la Legge di bilancio nega due volte: la prima, introducendo inconcepibili divisioni fra un livello di insegnamento e l’altro: o tutti dentro o tutti fuori (divide et impera?); la seconda, equiparando agli stessi fini pensionistici professioni troppo diverse fra loro.

Possiamo sperare che qualche sindacato, partito politico, ente, patronato, categoria di lavoratori alzi la voce? Speranza delusa. In questo povero Paese, che ha perso la voglia di combattere annegandola dentro la voglia di farsi ad oltranza i fatti propri (salvo poi ribaltare tutto al negativo, vedi le manifestazioni no vax con cui l’1% tiene sotto pressione il 99), ciascuno viaggia per conto proprio e invoca la rivoluzione (“oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente”, Gaber docet) solo quando non può farla. Strano? No, vero.

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