La scuola, questa sconosciuta, verrebbe da dire dopo aver ascoltato talk, dibattiti, conferenze di queste settimane di campagna elettorale. Sembra infatti che tra gli allarmi lanciati da economisti, sociologi, ricercatori sul dilagare dei Neet, sugli abbandoni, sulle differenze dei livelli di apprendimento degli studenti, e la percezione che la politica ha mostrato dell’“emergenza educativa” in cui viviamo, ci sia uno scarto notevole. Sì, nelle proposte dei partiti e delle coalizioni la voce “scuola” era presente, ma senza grande enfasi, quasi come una inevitabile questione da trattare ma in fondo non così decisiva. Come se non si fossero resi conto che per un Paese che vuole davvero guardare al futuro la scuola e l’educazione dei giovani sono una priorità.
In passato abbiamo sottolineato che sulla scuola ci sarebbe bisogno di una grande “costituente”, in cui da più punti di vista, anche politici, ci si potesse confrontare e individuare delle risposte, evitando il triste spettacolo di chi negli anni precedenti si è preoccupato più di demolire quello che era stato fatto che di trovare soluzioni ai problemi ancora aperti. Una costituente che nasca non per immaginare la scuola che ancora non c’è, perché in realtà non c’è bisogno di una “nuova” riforma: per un vero, profondo, realistico cambiamento della scuola italiana sarebbe sufficiente la realizzazione piena di due cose che già ci sono dai tempi del ministro Berlinguer: una vera autonomia degli istituti scolastici e una vera parità.
Una vera autonomia vuol dire rompere le rigidità che caratterizzano il sistema scolastico nei curricoli, nelle procedure, nelle modalità di formazione e reclutamento degli insegnanti e così via; vuol dire l’introduzione di una flessibilità dei percorsi che consenta più facilmente agli alunni di completare l’obbligo assecondando le proprie attitudini e capacità senza inutili perdite di tempo; vuol dire una reale valorizzazione della professione insegnante, che non sia sentita come un ripiego, soprattutto dai giovani.
Una vera parità vuol dire la possibilità delle famiglie di scegliere fra istituti statali e paritari senza che questa seconda scelta implichi una barriera di reddito. Questa possibilità, oltre a sanare un’evidente discriminazione nei confronti di chi non può permettersi il costo di una scuola paritaria, introdurrebbe un principio di sana concorrenza da cui non potrebbe che trarre giovamento l’intero sistema.
L’emergenza sanitaria provocata dal Covid ha modificato ulteriormente nel nostro Paese la sensibilità comune riguardante l’educazione delle giovani generazioni.
L’obiettivo delle politiche governative negli ultimi due anni è sembrato convergere sulla dimensione spaziale dell’intervento didattico (didattica laboratoriale, scuole sicure, distanziamento, didattica a distanza) piuttosto che su quella temporale (ritmi di apprendimento degli alunni, assimilazione dei contenuti culturali, programmazione delle lezioni, scelta accurata dei linguaggi disciplinari). Si è dimenticato che lo spazio scolastico è lo spazio di un incontro con una proposta culturale che necessita del tempo della libertà personale per divenire costitutiva di una nuova soggettività.
Un secondo aspetto riguarda la valorizzazione di chi la scuola deve mandarla avanti, maestre/i e insegnanti in primis, cioè veri protagonisti del fare scuola in modo nuovo, come abbiamo visto anche durante la fase emergenziale. Ma gli anni scorsi hanno dimostrato che si tratta di un terreno minato. La vicenda dell’insegnante esperto, che nelle ultime fasi di vita del governo Draghi è diventato nel decreto “aiuti bis” (approvato alla Camera e rinviato al Senato) tramite un cambio puramente semantico “docente stabilmente incentivato”, è indicativa di questa assenza di coscienza culturale ed educativa. Ad alcune rappresentanze politiche non andava la qualifica di “esperto” giudicata troppo classista, salvo il fatto che la metamorfosi in “docente incentivato” non esime il candidato alla progressione della carriera (ma di vera carriera comunque – ed è bene sottolinearlo – non si tratta) dallo svolgere tre percorsi formativi consecutivi curati da agenzie statali e sottoposte al controllo della contrattazione sindacale.
Così, più in generale, dobbiamo constatare che le proposte di alcuni schieramenti sembrano comunque collocarsi dentro una sostanziale conferma del sistema così com’è; d’altra parte, in prossimità di una scadenza elettorale decisiva per il nostro Paese ci si aspettava maggiore coraggio da chi si vuol porre in discontinuità con il passato, mentre la parità scolastica è presente solo nel programma di alcuni partiti “moderati”.
Il limite dei programmi elettorali nella parte dedicata alla scuola è che prescindono completamente dall’ascolto di esperienze che già sono in atto, come se la scuola non fosse (come in realtà è) il grande ambito del pre-politico dal quale l’azione politica deve imparare, anziché pretendere di calare dall’alto soluzioni. Gli anni drammatici del Covid, che speriamo di avere alle spalle, hanno insegnato in fondo che nonostante le mascherine e gli inutili banchi a rotelle, insegnanti coscienziosi e alunni pieni di vita e di domande possono realizzare punti di comunità e socialità, ai quali la politica non aggiunge nulla se non, come dovrebbe essere suo dovere, l’impegno di un sostegno sussidiario.
Non si chiede quindi a chi andrà al governo una nuova grande e taumaturgica riforma studiata a tavolino, ma una grande fase di ascolto e di osservazione di quello che c’è e che – come i fiori del deserto – è germogliato anche in questa difficile fase emergenziale, da cui trarre indicazioni che possano essere messe a sistema per il bene di tutti, per il bene comune. In un momento di forte disaffezione, le elezioni appena concluse non siano quindi il punto di arrivo, ma un’occasione per tornare alla politica e per rilanciare un vero dialogo tra tutti quei soggetti impegnati con responsabilità e passione dentro la vita sociale.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.