Il tema delle relazioni fra scuola e università è certamente uno dei più sensibili nell’ambito educativo ed emerge prepotente soprattutto in questo periodo, quando al termine della scuola, tra esame di Stato e scelta del dopo, i giovani sono chiamati alla prima grande scelta della vita. Soprattutto dopo quello che abbiamo vissuto con la pandemia, la vita dello studente che si appresta a lasciare la scuola media superiore e ad affrontare l’avventura del post-diploma non si è semplificata ma, anzi, si è ulteriormente complicata.
In un recente articolo di Camillo Bartolini veniva acutamente fatta notare, tra i tanti fattori di difficoltà, una sistematica complessità di relazione e di dialogo (se non addirittura una vera e propria incapacità) tra ministeri che si dovrebbero occupare dei percorsi educativi e formativi dei giovani, quello dell’Istruzione (e del merito) da un lato e quello dell’Università dall’altro. Da tempo si riflette più o meno coscienziosamente su che cosa occorra ai giovani che stanno terminando la scuola e devono affrontare la realtà del dopo (e qui poco interessa se tale dopo è già il lavoro, la formazione professionale o quella universitaria) per poter realizzare sé stessi.
È il grande territorio dell’orientamento, la grande occasione, forse l’ultima che è lasciata per poter seriamente riflettere su sé stessi, sulle proprie passioni, sugli interessi, su quello che desiderano essere da grandi, su quello che piacerebbe loro diventare. Assistiamo purtroppo oggi a una tragica mise au rôle da parte di tutti coloro che dovrebbero essere gli attori di questo processo: nella scuola pochi si occupano di orientamento e sempre più spesso tale attività è vissuta come un peso non riconosciuto professionalmente dagli insegnanti e inutile dagli studenti; nell’università si assiste poco a poco alla mutazione dell’orientamento verso i modelli anglosassoni, per cui ciò che conta è il prodotto che si deve vendere e su cui si cerca di catturare l’interesse del cliente. “Nel destino di moltissimi giovani – come scriveva Oscar Wilde al termine del XIX secolo – c’è qualcosa di tragico: iniziare la vita con un grande ideale e finire abbracciando qualche utile professione”.
Tutto quello che è accaduto durante il periodo pandemico non ha certamente facilitato il lavoro di assunzione di responsabilità da parte degli studenti. Questa nuova generazione ha storie, esperienze, motivazioni di gran lunga diverse da quelle dei loro compagni di qualche anno fa; chiedono di poter essere accompagnati ed accolti in un modo adeguato. Oggi, ormai fuori dal tunnel della pandemia dal punto di vista sanitario, appaiono le rovine di quello che il Covid ha lasciato: in questa nuova situazione non è possibile dare per scontato che si possa tornare a quello che c’era prima, magari con qualche verniciatura di counseling o di sportelli psicologici.
Il Pnrr tra le tante cose che prevede dedica ingenti risorse alle azioni di orientamento e di accompagnamento a una scelta consapevole per gli studenti; potrà essere un miglioramento di quanto già viene realizzato nelle scuole e nelle università? Tra qualche tempo avremo l’ardua risposta e capiremo se tutte le risorse (umane e no) e tutta la progettualità immaginata e messa in opera avranno contribuito ad invertire il trend che vede il nostro paese leader in Europa per il più alto numero di Neet e per il più basso tasso i laureati.
Nel frattempo scuola e università, ognuna con le sue caratteristiche e le sue responsabilità, tornino a dialogare tra loro non per il bene proprio, ma per il bene dello studente. Siamo in un momento che ricorda quello già descritto da Dickens oltre un secolo fa: “Era il migliore dei tempi, era il peggiore dei tempi, era l’età della saggezza, era l’età della follia […], avevamo tutto e niente davanti a noi, stavamo andando tutti direttamente in Paradiso e tutti direttamente dalla parte opposta”. In tale momento occorre vivere e raccogliere l’ennesima formulazione della sfida educativa che continuamente ci raggiunge.
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