“Alcune persone importanti insistono che l’Educazione debba limitarsi ad obiettivi particolari e limitati, e deve produrre un lavoro definito, che può essere pesato e misurato. Essi ragionano come se ogni cosa e ogni persona avessero un prezzo; e dove c’è stata una  grande spesa, c’è il diritto di aspettarsi un grande beneficio. Essi chiamano questo ‘rendere utile l’istruzione e l’educazione’, e ‘utilità’ è la loro parola d’ordine. Con un principio fondante di questo genere,  naturalmente chiedono quali sono i rientri della spesa per l’università; qual è sul mercato il valore reale di un bene chiamato ‘educazione liberale’, dal momento che certamente non ci insegna come far crescere le nostre imprese, sviluppare i nostri paesi o migliorare la nostra economia” (Newman, Discorsi sull’università, Discorso n.5).



Mi scuso se inizio un discorso che vorrebbe avere un taglio operativo con una citazione così lunga, datata (1852), riferita all’università, e per di più di un cardinale: ma esprime benissimo la natura del problema che i decisori politici si trovano ad affrontare.

È chiaro, nel pensiero di Newman, che l’Educazione (la maiuscola è nel testo originale) non può limitarsi ad obiettivi particolari o limitati, ma deve educere, accompagnare i giovani verso la condizione adulta, verso il futuro, deve quindi “mantenere spazi di libertà e investire sulla persona, sulla sua crescita positiva, culturale e spirituale” (da un’intervista a Mauro Magatti). Quello che è cambiato,  in centosettant’anni, è l’idea che questo non faccia “crescere le nostre imprese, sviluppare i nostri paesi o migliorare la nostra economia”: anzi, è esattamente il contrario. Una società che non investe in educazione non fa crescere il Paese o l’economia, e la crescita sarà tanto più intensa quanto più sarà equa, in una società che offra a tutti la possibilità di fruire di un percorso formativo di qualità, indipendentemente dalle loro caratteristiche personali di genere, di status, di etnia. Un’offerta formativa limitata agli “avvantaggiati” costituisce uno spreco di talenti non solo moralmente criticabile, cosa che non è detto trovi tutti d’accordo, ma economicamente rovinoso: la separazione fra equità e qualità non solo è ingiusta e dannosa, ma è anche insensata.



Qual è la situazione nel nostro Paese? I dati che ho riportato nel mio precedente articolo, che non sto a ripetere, mostrano che, dal punto di vista degli apprendimenti cognitivi misurabili, la scuola italiana non funziona, e non è nemmeno vero che questo sia dovuto solo all’insufficienza dei finanziamenti: se consideriamo come indicatore sintetico il costo pro capite, vediamo che nel 2018 (Education at a glance, 2021), era di 9.947 dollari a parità di potere d’acquisto per la primaria, 10.515 per la secondaria di primo grado e 11.962 per la secondaria di secondo grado, contro valori per l’Europa rispettivamente di 9.601, 11.477 e 11.404 dollari. Il valore per l’insieme dei cicli, incluso il terziario, era per l’Italia di 10.584 dollari, per l’Unione di 10.674. In quello stesso anno, però, la quota di Pil investita in istruzione era del 4,1% contro il 4,4% della media europea. Nel frattempo, tra il 2012 e il 2018, il numero totale di studenti è diminuito dello 0,1%. Sono dati troppo grezzi, e pre-pandemia, e li riporto solo per dire che a) si potrebbe certamente spendere di più, ma  b) la quantità di denaro spesa è meno importante del modo in cui viene spesa.



Abbiamo dunque una scuola poco efficace: che sia anche poco equa lo dimostra il fatto che i fattori negativi (ripetenze, abbandoni, risultati inferiori alla media) si concentrano in alcune specifiche zone geografiche, segnatamente il Sud e le Isole e le periferie urbane degradate, e in gruppi caratterizzati da disagio economico o sociale, come i migranti di prima e anche seconda generazione. Le scuole con una prevalenza di popolazione cosiddetta a rischio ottengono risultati più bassi, e vengono definite “deboli”, e poiché chi può, insegnanti e studenti, se ne va il più rapidamente possibile, si innesca una spirale verso il basso.

Questo è, tra l’altro, uno dei motivi per cui queste scuole tendono a rifiutare finanziamenti dedicati, che vedono come uno stigma negativo. Una reazione diffusa (e difensiva) degli insegnanti è quella di abbassare l’asticella, in modo che più persone possano superarla; in alternativa viene incrementato il giudizio interno, sempre più distante da quanto dice il risultato delle prove nazionali. Due misure entrambe negative in termini sia di qualità che di equità: il libro di Mastrocola e Ricolfi, per quanto non interamente condivisibile, mostra con chiarezza come la via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni, e molte delle misure che puntavano ad una maggiore inclusione hanno in realtà allargato la forbice delle differenze sociali.

E allora? Che cosa mettere in un programma realistico che si possa attuare “a legislazione vigente”, e utilizzando al meglio i fondi del Pnrr (che sono destinati proprio in larga misura alla riduzione dei divari territoriali e alla prevenzione degli abbandoni, quindi ad un maggiore allineamento fra qualità ed equità)? Provo a suggerire alcune ipotesi, invitando chi legge il Sussidiario, e so che ci sono molti insegnanti, ad arricchire l’elenco con proposte che abbiano due caratteristiche: essere realistiche e avviabili da subito.

1. Migliorare l’orientamento per favorire il successo. Equità non vuol dire che fanno tutti il liceo classico, ma che ciascuno riceve il tipo di formazione più coerente con le sue aspirazioni e le sue attitudini, una formazione di qualità sia che riguardi un corso di formazione professionale per pasticceri, sia che qualifichi liceali intenzionati a conseguire un dottorato in fisica delle particelle;

2. Supportare le scuole deboli favorendo l’assegnazione di ottimi insegnanti (anche volontari), compensati da un più celere avanzamento di carriera o, se come pare si è rotto il tabù dell’uguaglianza per tutti, compensandoli di più (anziché destinare gli aumenti ai docenti che hanno fatto corsi triennali la cui efficacia è da verificare);

3. Assegnare alle scuole deboli una particolare tipologia di insegnanti di sostegno in grado di sviluppare una programmazione individualizzata a seconda del tipo di supporto necessario ai ragazzi, spezzando l’unità classe con piccoli gruppi “di livello” (possibilità che già esiste, ma è poco sfruttata);

4. Affiancare ai docenti un’équipe di specialisti che li aiuti a far fronte alle difficoltà più rilevanti, coinvolgendo gli enti locali, a cui spetta di far fronte ai problemi di origine sociale;

5. Sviluppare la partecipazione delle famiglie, anche quelle a loro volta “deboli”, coinvolgendole nell’attività di classe, anche con forme di “scuola dei genitori”;

6. Affiancare alla scuola attività non solo di studio assistito, ma di sport, musica, recitazione, volontariato, puntando a fare  di ogni scuola una comunità educante;

7. Potenziare lo sviluppo delle competenze socio-emotive, obiettivo comune a tutto il sistema scolastico, ma che si è dimostrato particolarmente efficace nel rimotivare sia i docenti che gli studenti.

Già da qualche anno le indagini sugli studenti Erasmus mostrano che sono contenti di stare in Italia, ma trovano che la scuola italiana sia “noiosa”: una scuola migliore e più inclusiva sarebbe certamente meno noiosa e aiuterebbe i ragazzi a formare un’identità più positiva e più solida, oltre che ad essere buoni cittadini e membri attivi del mondo del lavoro.

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