Vorrei aggiungere qualche considerazione ulteriore al bell’articolo di Tiziana Pedrizzi sui risultati italiani dell’indagine Pisa, comparso sul Sussidiario del 4 dicembre. La prima è che il nostro paese è uno dei pochi in cui le differenze interne sono maggiori di quelle fra noi e gli altri paesi: differenze fra grandi aree geografiche, che dal 2003 sono le maggiori fra tutti i paesi indagati (eccetto il Canada che però ha tutti i valori superiori alla media Ocse), ma anche fra grandi e piccole città e fra aree metropolitane e campagne; differenze fra indirizzi, con l’abituale prevalenza dei licei rispetto agli istituti tecnici e professionali; differenze fra scuole anche della stessa area geografica, dello stesso indirizzo e della stessa dimensione.



La lettura di questi dati, che configurano una scuola “a macchia di leopardo”, come si diceva negli anni del ministro Berlinguer, e si mantengono stabili nel tempo anche se variano in entità, ci dice una grande verità che molti non vogliono sentire, e cioè che il modello centralistico e standardizzato che concede alle scuole una limitata autonomia e non esercita un reale compito valutativo, è inefficace e anche inefficiente, se le maggiori risorse sono investite secondo la medesima logica: in pratica, come notava un autore americano, per curare il malato si aumentano le dosi di una medicina che non fa effetto.



Quando la medicina è inefficace, può darsi che sia sbagliata la medicina, ma può darsi anche che sia sbagliata la diagnosi, e in questo caso io direi che è sbagliata la medicina in quanto è sbagliata la diagnosi: è diffusa – ma sbagliata – la convinzione che per colmare il divario è necessario investire in infrastrutture, perché le scuole del Sud sono fatiscenti, prive di collegamenti veloci con la rete, e via dicendo.

Non discuto sulla verità di quest’affermazione, ma noto che tutte le ricerche da almeno quarant’anni asseriscono che l’elemento qualificante di una scuola, quello che “fa la differenza”, è la qualità dei docenti e dei dirigenti. Non si tratta di scegliere fra alternative inconciliabili (o i soffitti che crollano o gli insegnanti impreparati) ma di avere sia soffitti un po’ più solidi, sia insegnanti un po’ più preparati. Del resto, diceva un amico gestore di una scuola paritaria, se si guardano solo le strutture, la scuola di Barbiana non avrebbe mai avuto il riconoscimento…



Anche il pur fondamentale investimento in tecnologie è inutile se i docenti non sono in grado di utilizzarlo: quando alla fine degli anni Ottanta, per il Piano nazionale dell’informatica (una volta tanto in linea con i tempi) si dotarono di computer le scuole, in molte non furono nemmeno spacchettati, perché nessuno sapeva usarli. Uno studio delle tigri asiatiche, paesi che dalla prima alla settima indagine hanno fatto consistenti progressi, mostrerebbe che l’investimento in istruzione è partito innanzitutto da una consapevolezza nei fatti, e non solo a parole, della sua rilevanza per lo sviluppo economico: un investimento, dunque, non un costo, che parte necessariamente dalla riqualificazione del personale.

E qui entra in gioco il diabolico meccanismo delle graduatorie e delle ricompense a pioggia: se in Italia l’unica possibile forma di ricompensa per un insegnante competente e impegnato è il trasferimento in una sede vicina a casa e in una scuola senza troppi problemi di disciplina e con studenti di un buon livello sociale, non sarà facile migliorare il rendimento dei ragazzi che studiano nelle scuole “deboli” (meglio direbbero i ragazzi che le frequentano, “sfigate”).

Un secondo elemento che trovo molto interessate è il punteggio ottenuto dagli studenti “migranti”, che ottengono apprezzabili risultati anche in italiano. Il termine usato da Invalsi, “migranti”, dovrebbe essere sostituito dalla corretta dizione utilizzata dal ministero, “studenti con cittadinanza non italiana”: a fronte di un continuo aumento degli studenti con cittadinanza non italiana (sono passati in vent’anni dallo 0,8% del totale al 9,7!), gli studenti nati all’estero sono continuamente diminuiti, 28mila in meno negli ultimi due anni, una minoranza anche nella secondaria, e le considerazioni sul cosiddetto ius culturae dovrebbero tenerne conto: episodi come la staffetta italiana 4×400 che ha vinto l’oro ai giochi del Mediterraneo, con quattro atlete di origine non italiana (una di famiglia originaria del Sudan, una nata da mamma italiana e papà nigeriano, una nata in Nigeria e l’ultima cubana) sono sempre più frequenti. Questi ragazzi hanno fatto tutto il loro percorso nella scuola italiana, ed hanno un rendimento paragonabile a quello dei loro coetanei con la stessa condizione socioeconomica, anzi a volte migliore perché i loro genitori – a volte in possesso di un elevato titolo di studio ma sottoimpiegati in Italia – considerano l’istruzione un mezzo per assicurare ai figli condizioni migliori delle loro, tanto è vero che nella secondaria sono passati in dieci anni dal 4,8% al 7,3%, e sono forse più motivati dei loro coetanei italiani, che pensano che studiare sia tutto sommato inutile.

Un ultimo elemento riguarda il posizionamento dell’Italia nelle competenze matematiche e di scienze, e lo collego alle variazioni di punteggio delle ragazze, che è stabile per scienze e matematica, ma nella lettura è diminuito. Ora, la scarsità di laureati delle aree Stem (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica) è un problema non solo italiano, ma che da noi ha proporzioni più gravi: i laureati Stem nel 2016 sono stati in Italia il 23,8%, contro il 26,9% della Francia e il 35,2% della Germania e il 26,4% della media europea, mentre i laureati dell’area umanistica, artistica e delle scienze sociali sono stati rispettivamente 30,5, 17,3 12,5 e 19,4%. Il che significa che in Italia ci sono 13 laureati “umanistici” per ogni 10 laureati Stem, mentre in Francia (6,4) e in Germania (5,5) il rapporto si inverte. Ora, in questo ultimo tipo di corsi la presenza femminile è maggiore: i dati di Alma Laurea relativi al 2018 dicono che la percentuale di ragazze sul totale dei laureati è del 58,7%, ma per le lauree triennali sono il 93,3% nei gruppi insegnamento, nel linguistico l’83,8%, a psicologia l’80,4%. Reciprocamente, sono una minoranza nei gruppi ingegneria (26,6%) e scientifico (26,9%).

Si dovrebbe quindi puntare su di una ridistribuzione della presenza femminile, con più scelte per l’area tecnologica e scientifica: il numero 93 del febbraio 2019 di Pisa infocus sul motivo per cui poche ragazze scelgono materie scientifiche, nota che la percentuale di ragazze che vanno meglio dei maschi in scienze è nettamente superiore a quella di quante, in seguito, sceglieranno indirizzi scientifici, e una possibile spiegazione è che hanno probabilmente voti molto alti in tutte le materie, e quindi scelgono indipendentemente dalla riuscita; un altro motivo potrebbe essere la ridotta presenza di modelli femminili in questo settore.

Nella stessa serie, il n. 90 sull’insegnamento delle scienze mostra che l’uso di modalità più coinvolgenti, basate sulle attività laboratoriali e sul lavoro personale, fa crescere l’interesse alle scienze anche fra le ragazze. E torniamo al punto di partenza, cioè alla (non) qualificazione iniziale e in servizio dei docenti, che utilizzano metodi del tutto tradizionali. Non possiamo però, onestamente, imputare a loro ogni colpa (un tempo si diceva “è come sparare sulla Croce Rossa”), perché lo stereotipo della superiorità maschile in campo scientifico e tecnico è duro a morire. Una ricerca pubblicata recentemente su Science mostra che già a sei/sette anni le bambine sono propense ad associare ai maschi la qualifica di “molto intelligente” o di “che va bene a scuola”, il che non corrisponde alla realtà, ed è un fenomeno preoccupante perché i bambini tendono a modellare le proprie aspirazioni sulla base di stereotipi di genere.

Come si vede, i dati di Pisa parlano in molte direzioni, e le nazioni che li hanno utilizzati per prendere decisioni di politica educativa hanno ottenuto risultati positivi e a volte addirittura spettacolari, come le “tigri” di cui sopra, e in particolare la Corea. Non possiamo rassegnarci passivamente al regresso dei paesi occidentali, che dalla scuola si dilata all’economia, alla politica, alla qualità della vita: è vero che la cultura non si identifica con i risultati nei test di apprendimento, ma certo possiamo considerarli, per tornare all’esempio medico da cui sono partita, un allarmante sintomo che qualcosa non va.