Il documento governativo Next Generation Italia (volgarmente detto Recovery Fund) prevede al punto 2.4, Istruzione e ricerca, la spesa di 19,2 miliardi di euro per sei progetti compresi in due grandi capitoli: il primo è intitolato “potenziamento della didattica e diritto allo studio”, il secondo “dalla ricerca all’impresa”.
Tenendo conto dei tempi e delle modalità di erogazione da parte degli organismi europei, la cifra dovrà essere spalmata su un arco di cinque anni (2021-2026). Ora, senza sottilizzare tra sovvenzioni a fondo perduto e prestiti, ne deriva che potremmo disporre, se chi ci governa sarà capace di drenare nei fatti ciò che ha previsto sulla carta, di circa 3,2 miliardi per anno, ovvero 1,6 per il potenziamento della didattica e altrettanto per il blocco ricerca e impresa. Molto, poco?
Nel 2019 la spesa italiana per l’istruzione (dati Tuttoscuola) è diminuita dal 3,6 al 3,5% del Pil, corrispondente a circa 57,5 miliardi di euro e comunque nettamente inferiore ai 67,4 spesi nel 2015 (dati Ocse). Nel bilancio dello Stato 2019-2021 (fonte Senato, aprile 2019) la stessa cifra di 57/58 miliardi tra ricerca, istruzione scolastica e università è ricorrente, a dimostrazione che la filosofia di spesa è questa. Non importano alle compagini governative succedutesi negli ultimi anni le critiche piovute da tutte le agenzie impegnate nel settore, riguardo al fatto che meno di noi spendono solo la Grecia e la Romania.
Ora, se aggiungiamo i 3,2 miliardi del Recovery ai 58 circa che lo Stato italiano metterebbe di suo, risulta un numero (61/62 miliardi) che resta ancora una volta inferiore non solo al 2015, ma ai 65 spesi dall’Italia in istruzione nel 2017 (dati Eurostat). I numeri sono opinabili fino a un certo punto. Il trend è chiaramente descritto, e impietosamente, da questi dati che collocano l’Italia agli ultimi posti in Europa quanto a risorse accantonate per la trasmissione del sapere alle giovani generazioni. Evidentemente con il piano Next Generation l’Italia si ripropone di risalire la china, o forse mettere una pezza, là dove non arriva con i propri mezzi. Andando poi nel dettaglio dei due maxi-capitoli, in che modo lo si vorrebbe fare?
In breve, il potenziamento della didattica dovrebbe avvenire tramite il rafforzamento delle competenze digitali e l’aumento delle conoscenze tecnologiche/linguistiche/scientifiche. Una parte interessante è qui riservata al rilancio (se ne parla da anni) degli istituti tecnici superiori (Its). Il compito “dalla ricerca all’impresa” sarebbe assolto con potenziamento del nesso tra start-up e mondo delle imprese. Parallelamente all’attuazione dei due macro-capitoli, il documento si impegna a realizzare una grande piano di riforme. La prima che campeggia è la riforma del sistema di reclutamento del personale scolastico, integrato con un sistema di formazione permanente.
Come si vede, il progetto è lastricato di buone intenzioni ed è certo da incoraggiare, soprattutto al pensiero che per il prossimo quinquennio non ci sarà altra trippa per i gatti. Dunque, o la va o la spacca. Pertanto facciamole, queste riforme. Resta il dubbio che se non si sono fatte finora, anche quando lo Stato spendeva di più, dovrebbe essere modificata la cabina di regia. Non interessa una crisi di governo, ma una crisi di coscienza. Chi amministra la scuola dovrebbe porsi sul serio la domanda se non valga la pena, per risalire la china e riprendere a navigare in mare aperto, ascoltare la scuola reale, cioè quel grande serbatoio di intelligenza e gratuità che hanno dimostrato docenti, presidi e professori universitari che in questi mesi la scuola nuova già l’hanno realizzata. Ascoltando i loro alunni, mettendosi a disposizione, correggendo e correggendosi. Non vorremmo che la grande partita dell’istruzione, dell’educazione e della ricerca fosse gestita solo da politicanti o esperti di parte.