Il periodo della transizione dalla scuola al lavoro è uno dei momenti più critici nella vita di un giovane. Recenti ricerche hanno evidenziato che questo periodo ha una durata molto lunga in Italia, se confrontata con quella di altri Paesi europei. In base ad un recente studio di Pastore, Quintano e Rocca sui dati EU-SILC del 2017 (pubblicato nel 2021 sulla prestigiosa rivista Labour Economics, dal titolo Some young people have all the lucks. The duration dependence of the school-to-work transition in Europe), mediamente un giovane impiegava poco meno di tre anni per trovare un’occupazione stabile una volta completati gli studi. Al contrario, nel Regno Unito essa aveva una durata inferiore ad un anno; a seguire Austria, Germania, Belgio e Francia con una durata di poco più di un anno. Sebbene il quadro economico da allora sia sostanzialmente migliorato, l’Italia continua ad essere uno dei Paesi in cui la ricerca di lavoro si presenta tra le più problematiche.
Le cause di questa forte penalità per i giovani italiani sono molteplici, ma fondamentalmente riconducibili alla scarsa connessione del nostro sistema educativo con il mondo del lavoro. Ciò significa la scuola o l’università sono basate su contenuti principalmente teorici e quindi non sono in grado di trasmettere ai giovani le skills richieste dal mercato del lavoro. Pertanto, quando un giovane completa gli studi, deve attrezzarsi per apprendere queste competenze successivamente, nel momento in cui si trova ad approcciare il mercato del lavoro.
Le recenti riforme introdotte nella scuola secondaria di secondo grado, come l’alternanza scuola-lavoro ed il successivo PCTO (Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento), finalizzate proprio ad avvicinare i giovani al mondo del lavoro durante il loro percorso scolastico, non hanno finora sortito grandi effetti. Inoltre, sebbene negli ultimi anni i livelli generali di disoccupazione siano calati anche in Italia, il mercato del lavoro italiano fatica ad assorbire l’offerta di lavoro proveniente in particolare dai giovani, a causa della loro scarsa esperienza.
I giovani sono inoltre maggiormente esposti ai malesseri emotivi legati all’ambiente di lavoro. I fenomeni del burnout, ansia da lavoro e stress sono infatti in forte crescita soprattutto tra i giovani, dimostrando la loro scarsa capacità a sviluppare empatia con il lavoro. Come dimostra un’indagine BVA Doxa del 2021, i lavoratori e le lavoratrici giovani hanno una maggior propensione a lasciare il lavoro a causa di un malessere emotivo. Il 49% degli under 34, infatti, si è dimesso almeno una volta per preservare la propria salute psicologica. La situazione negli ultimi anni, anche a seguito della crisi socio-economica innescata dalla pandemia da Covid-19 è ulteriormente peggiorata, tanto da identificare nuovi fenomeni come quello delle grandi dimissioni, dell’abbandono silenzioso e del rallentamento dei ritmi di vita, indicando rispettivamente l’aumento della pratica a rassegnare le dimissioni dal posto di lavoro (grandi dimissioni), a ridurre al minimo lo sforzo profuso sul lavoro, rinunciando alla possibilità ad esempio di svolgere lavoro straordinario (abbandono silenzioso) ed a recuperare l’essenza della vita, attribuendo una minore importanza all’affermazione professionale (rallentamento dei ritmi di vita). Tali ansie, infatti, accompagnano i giovani fin dal momento del colloquio di lavoro, e probabilmente anche da prima.
Se andiamo ad analizzare il gap tra il tasso di disoccupazione giovanile e quello degli adulti, in Italia esso è tra i più elevati. Nel 2021, il tasso di disoccupazione giovanile per la classe di età 15-24 era pari a 3,23 volte (in termini di rapporto) quello degli adulti (classe di età 25-54). L’equivalente valore riferito alla media dei Paesi dell’Unione Europea era pari a 2,57.
Per aiutare i giovani in questo percorso di avvicinamento al mondo del lavoro, è importante capire innanzitutto quali sono le azioni che essi intraprendono nella ricerca di un’occupazione e come questo processo possa essere migliorato.
Nel corso degli ultimi anni, è profondamente cambiato il modo in cui, soprattutto i giovani, ricercano lavoro. L’avvento della digitalizzazione ha favorito la diffusione di piattaforme web di ricerca di lavoro che hanno totalmente modificato le modalità di interazione tra i diversi attori. Gli stessi uffici di pubblico impiego e le tradizionali agenzie private di collocamento hanno adeguato il loro funzionamento ai progressi tecnologici, offrendo servizi online.
Gli uffici di pubblico impiego hanno infatti, o dovrebbero avere, un ruolo chiave in questo processo, in quanto rappresentano l’istituzione volta a favorire l’incontro tra la domanda e l’offerta del lavoro, oltre che fornire alle persone in cerca di lavoro informazioni di vario tipo, come sui corsi di formazione, consigli su come affrontare un colloquio di lavoro, o preparare il curriculum.
È allora interessante analizzare, attraverso l’indagine Eurostat sulle Forze di Lavoro, quali sono le azioni ed i canali più utilizzati dei giovani nella ricerca di lavoro. Questa indagine, inoltre, essendo svolta con le stesse modalità in tutti i Paesi europei, permette anche di effettuare comparazioni tra i medesimi.
Analizzando i dati del 2020, emerge che l’Italia è, insieme alla Romania ed alla Polonia, il Paese in cui i giovani interagiscono meno con gli uffici di pubblico impiego in termini di fruizione dei servizi che essi mettono a disposizione. Le percentuali di giovani che hanno dichiarato di essersi rivolti a tali uffici per la ricerca di lavoro ed aver ricevuto assistenza, infatti, sono state del 6% in Romania, 7,8% in Polonia e 10% in Italia. Tali percentuali si attestano invece al 49,1% in Austria, 45,8% in Belgio e 42,5% in Estonia.
Questo scarso ricorso da parte dei giovani italiani agli uffici di pubblico impiego è sicuramente il riflesso della debolezza delle istituzioni nel nostro Paese, dovuta all’incapacità di fornire servizi personalizzati ed adeguati a tutti coloro che ne possono potenzialmente fare richiesta. Tale incapacità deriva principalmente dalla scarsità di risorse umane e finanziarie a disposizione di tali uffici, che ne rendono difficile un funzionamento efficiente ed efficace. Tuttavia, lo scarso affidamento da parte dei giovani italiani agli uffici di pubblico impiego è anche dovuto alla loro scarsa propensione a fruire dei servizi istituzionali. Tale ipotesi trova conferma nel fatto che tra i metodi di ricerca di lavoro più utilizzati vi è il canale informale degli amici e conoscenti. Nel 2020 l’82% degli uomini e l’88% delle donne nella classe di età dai 15 ai 34 anni hanno fatto ricorso a tale canale. Percentuali superiori a livello europeo le ritroviamo soltanto in Romania (98%), Repubblica Ceca (96%), Grecia (91%), Cipro (88%) e Croazia (84%). In altri Paesi, quali ad esempio Norvegia e Svezia, l’equivalente percentuale è soltanto del 23%.
Altri metodi ampiamente utilizzati dai giovani italiani per trovare un lavoro consistono nel rivolgersi direttamente ai datori di lavoro, che nel 2020 è stato utilizzato dal 75% degli uomini e l’80% delle donne, e nello studio di annunci di lavoro, praticato nello stesso anno dal 75% degli uomini e dall’80% delle donne. Generalmente, infatti, i rispondenti all’indagine sulle forze di lavoro hanno dichiarato di aver fatto uso di più canali di ricerca durante il periodo di disoccupazione.
Se consideriamo invece coloro che si sono soltanto rivolti agli uffici di pubblico impiego, a prescindere dal fatto di avere o meno ricevuto assistenza, le percentuali in Italia si mantengono comunque molto basse, attestandosi intorno al 20% sia per gli uomini che per le donne. Si tratta di un dato che fa registrare persino un calo rispetto al passato, se comparato al 31,5% del 2011.
La situazione non migliora neanche se guardiamo al fenomeno dal lato delle imprese. In base ai dati Excelsior, infatti, nel 2020 solo il 7,4% dei datori di lavoro ha dichiarato di essersi rivolto agli uffici di pubblico impiego per reclutare personale, mentre il 28,4% di essi ha affermato di aver chiesto ad amici e conoscenti e di aver fatto offerte pubbliche in proprio.
Questi dati sono ancora più sorprendenti, se pensiamo alle recenti riforme del mercato del lavoro, prime fra tutte l’introduzione del Fondo Garanzia Giovani a partire dal 2014 e del Reddito di cittadinanza, che è stato in vigore dai primi mesi del 2019 fino al gennaio del 2024. Tali riforme presuppongono infatti un ruolo attivo degli uffici di pubblico impiego nella presa in carico e nella gestione delle richieste.
Se la scarsa efficacia degli uffici di pubblico impiego nel favorire l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro è cosa ben nota, così come lo è l’esistenza di diversi posti di lavoro che rimangono vacanti per la mancanza di aspiranti lavoratori con le necessarie competenze, gli uffici di pubblico impiego potrebbero e devono nel futuro giocare un ruolo chiave nel supporto sia di coloro che cercano lavoro – siano essi giovani che si affacciano per la prima volta sul mercato del lavoro o persone non più giovani che hanno perso un precedente lavoro – sia di coloro che, invece, ricercano personale.
Ciò potrà accadere solo se sarà realizzata una profonda riforma, in quanto essi appaiono oggi, come testimoniato da ANPAL (Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro) che ne aveva il coordinamento fino a pochi mesi fa, come un sistema sottodimensionato rispetto alle richieste di servizi dell’utenza e congestionato sul piano operativo, con un numero di operatori in costante contrazione da oltre un decennio, la cui età media, nel 2019, era di circa 55 anni (fonte: Servizi per l’impiego in Italia, pubblicato il Rapporto ANPAL di monitoraggio 2020).
L’ANPAL, che per diversi anni ha svolto la funzione di coordinamento degli uffici di pubblico impiego, è stato soppresso pochi mesi fa e le sue funzioni sono state assunte dal ministero del Lavoro, con l’intento di riorganizzare le politiche attive e passive del lavoro in Italia e rendere più efficiente il sistema di gestione del mercato del lavoro. Tra le azioni previste vi è, infatti, un potenziamento delle funzioni degli uffici di pubblico impiego che porti l’Italia ai livelli di efficienza e funzionamento del mercato del lavoro simile a quello degli altri Paesi europei.
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