C’è un’immagine dantesca che mi viene sempre in mente quando penso all’evoluzione della scuola italiana. L’attingo dal canto XXXII del Purgatorio: è quella del carro che si trasforma in un che di deforme e mostruoso. Il carro (che lì allegoricamente rappresenta la Chiesa) viene prima colpito dall’alto dalla violenza dell’assalto di un’aquila ed insidiato poi dal basso da una volpe; infine dalla terra esce un drago che lo trafigge con la sua coda maligna. Il carro si riempie allora tutto delle penne lasciate dall’aquila su di lui, che lo infestano come la gramigna fa con la terra fertile, soffocandola. Ma la trasformazione continua: il carro si deforma, diventa orribile; gli spuntano delle teste in ogni sua parte, tre sul timone e quattro nei suoi angoli. E Dante ci dice anche come erano fatte le teste: “Le prime eran cornute come bue,/ ma le quattro un sol corno avean per fronte:/ simile mostro visto ancor non fue”. Mai visto un mostro simile!
È l’esatta fotografia dell’attuale scuola italiana, specie della secondaria di secondo grado. Negli ultimi quindici anni circa è come se un drago infernale si fosse avventato contro di lei e si fosse quasi divertito a deformarla, a trasformarla, a farle perdere l’identità. Sono spuntate gobbe, bitorzoli, gonfiori pestilenziali. Mai visto un mostro simile! Le strane e purulente pustole sono state in parte riassunte qui da un recente articolo di Emanuele Triggiani: “Alla tradizionale dozzina di discipline già impartite si aggiungono progetti pomeridiani, certificazioni linguistiche, alternanza scuola-lavoro (l’attuale Pcto), educazione civica, uscite didattiche, stage all’estero e… chi più ne ha, più ne metta!”.
Mettiamoci di più, infatti, come l’aggressione sempre più invadente ed irritante del sistema universitario, affamato di iscritti, con le sue prove di selezione stabili al quinto anno delle superiori e, anzi, già proposte al quarto. Ad una popolazione scolastica sempre più disorientata, sempre più sfinita, esaurita, si ammanniscono poi ore di orientamento, corsi sulla legalità, incontri sul cyberbullismo, sulle pari opportunità, sull’educazione sessuale, sul gender, sul green, sull’Agenda 2030… Forse ci siamo dimenticati che l’alternanza scuola-lavoro partì con 400 ore negli istituti professionali e 200 nei licei! E mettiamoci poi la moda della settimana corta, che ha concentrato in cinque giorni il monte ore che prima era diluito in sei.
Oggi c’è un mostruoso carrozzone, dove ieri c’era un carro che bene o male funzionava. La scuola superiore è diventata il regno dell’attivismo, della tuttologia, della fretta, delle tabelle, dei grafici, del “fare come in Finlandia”, del “ce lo dice l’Europa”, delle competenze da spendere nel mondo del lavoro (mentre la disoccupazione giovanile, almeno da noi in Italia, è ormai un dato strutturale). Oggi, non appena metti piede in un istituto scolastico, diventi già un giovane preoccupato per il suo futuro. I ragazzi abbandonano. Perché la scuola è vecchia e inadeguata? Forse. Forse, invece, perché a nessuno piace convivere col mostro. O forse perché avremmo bisogno di una scuola dai ritmi umani, più lenti e, nell’epoca della superficialità e di qualche ideuzza generale adatta a saltare qua e là come in un talk show o in un colloquio dell’esame di Stato, di una scuola che sappia andare in profondità, ad interessare veramente l’essere umano.
Altrove, nelle isole fortunate del Nord Europa, la dispersione è minore. Ci inchiniamo, direbbe Leopardi, all’autorità delle statistiche. Ma, mi chiedo, a che prezzo? Voglio dire, in una scuola che riduce pretese e aspettative di sicuro la dispersione è minore. Ma chi esce da quella scuola, non disperso, a che livello è? Migliore di quello dei nostri studenti? Non so. So che quando i miei studenti vanno a studiare per un anno all’estero non solo sopravvivono, ma riescono anche molto bene. So che la nostra attuale scuola fatica a fronteggiare la dispersione e nello stesso tempo non riesce più a garantire degli standard culturali elevati: in generale il livello degli apprendimenti tende sempre più verso il basso. Certo non è tutta e solo colpa della scuola se questo si verifica, ma di sicuro una scuola deformata non assolve bene un compito sempre più difficile.
Adesso dovremmo finalmente dire basta alla “desueta lezione frontale” e fare un salto in avanti grazie alla flipped classroom, al debate, allo student-centred learning… Colgo in queste critiche un eccesso di tafazzismo. Se è vero che un don Milani redivivo inorridirebbe rispetto agli atteggiamenti persistenti da cattedratici gentiliani di certi colleghi, è anche vero che c’è sempre stata una silenziosa foresta che cresce di docenti all’altezza del loro ruolo, che si preoccupano di scendere tra i banchi a dialogare con i ragazzi, che li valorizzano e li mettono al centro, che li coinvolgono in progetti o lavori di gruppo. Sono pochi? E allora aiutiamoli ad essere quello che devono essere! Lavoriamo su quel che si è piuttosto su quel che si fa. Saranno invece delle tecniche didattiche dal vago sapore esotico americano la panacea, la bacchetta magica che ci permetterà di evolverci verso un destino radioso? Su un carrozzone deforme? Io sono tra gli scettici. Altri ingrossano le file degli ottimisti. Molti sono sempre più disorientati e avviliti.
Intanto il mostro continua a deformarsi. Spuntano gobbe, teste, superfetazioni che non si sa come fermare, come gestire. Siamo invasi da una novità dopo l’altra, partorita e progettata nei laboratori di chi vive scollato dalla realtà. Avremo le nostre aule digitali coi soldi del Pnrr, che però non prevedono stanziamenti per chi dovrà insegnare ad usarle. E forse qualche attrezzatura diventerà presto obsoleta e finirà nel magazzino sempre più costipato insieme ai banchi a rotelle.
Il problema reale è capire chi sta prendendo possesso del carro. Il destino della nostra scuola sembra proprio quello previsto dalla visione di Dante: sul carro apparvero, dice il poeta, una puttana e un gigante. Lei cercava di sedurre lui, lui la flagellava “dal capo infin le piante” e poi “di sospetto pieno e d’ira crudo,/ disciolse il mostro, e trassel per la selva”. È una visione apocalittica, che però, come sempre nella Commedia, non è l’ultima parola. Perché arriverà, mandato da Dio, un “cinquecento e diece e cinque” che ucciderà la puttana con “quel gigante che con lei delinque”. Insomma, il carro sarà salvato. Ma non abbiamo mai saputo cosa intendesse Dante con quelle due figure inquietanti e con quel numero simbolico. E, a proposito di mostruoso carrozzone scolastico, non lo sappiamo certo noi!
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