Con l’approssimarsi dell’esame di Stato, si avvicina anche l’ora più buia, quella dei fatali “collegamenti” tra discipline. Si tratta, generalmente, di un esercizio acrobatico tra i più rischiosi, in cui i nostri giovani in vista del colloquio interdisciplinare si allenano a paragonare i terremoti con Leopardi, le catene di montaggio con l’espressionismo e via fantasticando. Per suggerire percorsi meno scellerati, il mio liceo, che ha la fortuna di ospitare un indirizzo musicale, ha proposto una rassegna di “intersezioni e convergenze” tra musica e letteratura. Si alternano, durante queste lezioni-concerto, inquadramenti letterari curati dal sottoscritto e brani musicali eseguiti dal vivo dai nostri bravissimi docenti ed allievi. Percorsi ed autori si susseguono secondo logiche non arbitrarie, ma colte direttamente dall’esperienza dei poeti: si va dal Montale degli Accordi e dai suoi legami con Debussy, al Caproni de Il franco cacciatore, libro ispirato all’opera di Weber.
La figura di Giorgio Caproni (1912-1990) si è imposta negli anni “come una delle più importanti della nostra poesia novecentesca, forse la più importante nel dopo-Montale”, a giudizio di Elio Gioanola. Con i quasi coetanei Luzi e Bertolucci, egli compone la seconda triade del Novecento, dopo la classica Ungaretti-Montale-Quasimodo. Dalla prima raccolta Come un’allegoria (1936) alla postuma Res amissa (1991), il discorso poetico di Caproni si è sviluppato da una linea anti-novecentesca, piana e cantabile, che lo ha fatto avvicinare a Saba e Penna, alle folgoranti interrogazioni metafisiche evidenti soprattutto nelle ultime grandi raccolte, a partire dal Congedo del viaggiatore cerimonioso, proseguendo con Il muro della terra, fino a Il franco cacciatore, a Il conte di Kevenhüller, a Res amissa. Ma i lettori più avvertiti hanno sottolineato la “fedeltà primaria” (Verdino) dell’ispirazione di Caproni, dal gesto bellissimo di una “fanciulla che apre una finestra” sui “prati di marzo”, mentre “ride il sole/ bianco”, che leggiamo nell’iniziale Come un’allegoria, fino all’autoritratto di Anch’io, che chiude la raccolta Garzanti dell’opera omnia, in cui il poeta appare come “uno dei tanti”, un “albero fulminato/ dalla fuga di Dio”; Pampaloni ha parlato del continuum della sua poesia; Rondoni vede nelle ultime prove del poeta livornese una “ricapitolazione, non una separazione”, rispetto alla produzione precedente.
Ed è un autore ben presente nella memoria dei poeti d’oggi, se ad esempio Gianfranco Lauretano, nel suo recente Questo spento evo dialoga con la sua mirabile combinazione di suono e senso. Caproni è un poeta che si muove secondo la dinamica delle “variazioni sul tema”, rendendo sempre più essenziale il suo dettato. Va fatto conoscere il Caproni giovane, dagli incipit meravigliosi: “Sei donna di marine/ donna che apre riviere” (da Finzioni, 1941); si sosti poi sul terzo libro, Il passaggio d’Enea (1956), “nucleo centrale e irradiante” della sua poesia, secondo Raboni, in cui affiorano con più urgenza i temi del viaggio e della sua città più amata, la Genova “dagli amori in salita”, a cui dedica la famosa Litania; con Il seme del piangere (1959), torna alla sua prima città, Livorno, in cui visse i suoi primi dieci anni. Le memorie d’infanzia coincidono con la figura della madre, Anna Picchi, amatissima e qui rovesciata, secondo un procedimento tipico del poeta, in giovane fidanzata; qui l’Edipo però non ha luogo, poiché la donna è vista nell’età precedente al matrimonio, come una bella ragazza da corteggiare.
Di questa raccolta ai giovani andranno lette, almeno, Preghiera e Ultima preghiera, versi del congedo e ballate di sapore cavalcantiano (ma in tutta la raccolta sono presenti moduli stilnovistici). Tutta la città è investita dal suo apparire: “Ma come s’illuminava/ la strada dove lei passava!”; “Livorno popolare/ correva con lei a lavorare”; “Livorno, quando lei passava,/ d’aria e di barche odorava./ Che voglia di lavorare/ nasceva, al suo ancheggiare!”. Per lei, nella famosa lirica che reca questo titolo, il figlio poeta vuole comporre “rime chiare,/ usuali, in -are”. La poesia deve assomigliarle: “sii magra e sii poesia/ se vuoi essere vita”, “fine e popolare/ come fu lei” (da Battendo a macchina).
Poche poesie come queste di Caproni sono capaci di trasmettere il fascino lieve di una figura che “bastava a far primavera”. Ma è tempo ormai di inoltrarci nel Caproni ultimo e più grande, attraversato dal tema della caccia. Nella vertiginosa inchiesta, io e Dio si confondono, si scambiano i ruoli, “Dio non s’è nascosto/ s’è suicidato” (Deus absconditus, da Il muro della terra); un Dio che esiste “soltanto/ nell’attimo in cui lo uccidi” (Ribattuta da Il franco cacciatore); un Dio al quale si rivolge una Preghiera di esortazione o d’incoraggiamento (da Il muro della terra): “Dio onnipotente, cerca/ (sforzati), a furia d’insistere/- almeno – d’esistere”. Sparizione di Dio è sparizione dell’uomo: “Smettetela di tormentarvi./ Se volete incontrarmi,/ cercatemi dove non mi trovo” (Indicazione, da Il franco cacciatore).
Nelle ultime raccolte, le ventose città portuali sono sostituite dal paesaggio reale e metafisico della Val Trebbia, nell’appennino ligure-emiliano, tra borghi abbandonati, incerte gole, fumose osterie, sentieri nevosi erti e ingannevoli, in cui l’uomo è alla ricerca di Dio e di se stesso, non trovando né l’uno né l’altro. Scorgiamo paesaggi e situazioni che fanno pensare a un famoso racconto di Silvio D’Arzo, Casa d’altri. Si è parlato di “ateologia” a proposito dell’ultimo Caproni, a significare questi luoghi dell’abbandono e di una “disperazione calma / senza sgomento”, come aveva scritto nel Congedo del viaggiatore cerimonioso. Ma la sua poesia è prima di tutto un corpo a corpo con Dio, o con il suo fantasma.
Fu Testori a vedere nel Franco cacciatore uno dei vertici della poesia italiana: “Mai, credo, la negazione di Dio è stata, come in queste poesie di Caproni, sua affermazione”. In Generalizzando, (da Res amissa) scrive: “Tutti riceviamo un dono./ Poi non ricordiamo più / né da chi né che sia./ Soltanto ne conserviamo/ pungente e senza condono – la spina della nostalgia”. Altri testi meravigliosi, sempre dal Franco cacciatore, sono L’ultimo borgo e Aria del tenore, in cui la preda lascia “tracce elusive/ e vaghi indizi”, mentre si aprono “luoghi / non giurisdizionali”. Il testamento di Caproni, se “testamento” non fosse parola così enfatica per l’ironico poeta, viene affidato alla raccolta postuma Res amissa, “la ragione ultima della sua poesia”, come ha scritto Giorgio Agamben, sospesa tra ragione e grazia, tra ricerca ininterrotta e dono sconosciuto, come in Mancato acquisto, in cui l’uomo, malinconicamente, rifiuta l’offerta più grande.
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