“Preferisci il Covid o la guerra?”. Questa la prima domanda che ho sentito rivolgere da un bambino della scuola primaria a un suo compagno allo scoppio della guerra in Ucraina. Molte altre in questo periodo sono emerse nei ragazzi, di tutte le età, di ambito e spessore differenti, ma tutte lecite. Vi è chi ha interesse a capire nel dettaglio le motivazioni della guerra, a individuarne le responsabilità, a ipotizzare le possibili strategie per risolverla: “Come può un uomo solo avere così tanto potere da determinare le sorti di un popolo intero e del mondo? Perché, pur sapendo che le decisioni che venivano prese in merito alla Nato avrebbero sollecitato una reazione russa, nessuno ha pensato di evitare ciò che avrebbe portato facilmente ad uno scontro? Esiste una guerra giusta? È giusto rispondere alle armi con le armi, dal momento che l’alternativa a un’aggressione come quella di Hitler, e oggi di Putin, sarebbe chiudere gli occhi davanti all’ingiustizia e voltarsi dall’altra parte rispetto alle vittime? Quali sono le alternative all’azione armata?”.



Altri si interrogano sulla loro responsabilità rispetto a quanto sta accadendo: “Come stare davanti alla guerra? Come reperire informazioni attendibili utili a formulare un giudizio su quanto sta accadendo? Che cosa non abbiamo imparato dalla storia dopo due guerre mondiali? Cosa abbiamo imparato noi dall’esperienza della pandemia che ora può servirci ad affrontare la paura? Che cosa posso fare io? A cosa serve pregare se non cambia la situazione?”.



Un ragazzo pone al suo docente una domanda bruciante e diretta: “Prima la pandemia, adesso la guerra: sono nato nel momento sbagliato?”.

Sollecitati e provocati da tale raffica di domande, gli adulti non possono esimersi innanzitutto dall’ascoltarle, accorgendosi che non bastano facili risposte per soddisfarle: occorre intraprendere un cammino condiviso con i propri studenti di ricerca delle ragioni della speranza.

Scrive in proposito una docente di religione: “Nell’ora di religione delle terze medie, dopo un percorso tra i Vangeli con particolare attenzione agli eventi della Pasqua, abbiamo pensato di anticipare il lavoro su Grossman, ebreo ucraino a cui è intitolata la nostra scuola, con la proposta di lettura di alcuni testi in cui egli affronta il tema della guerra, delle ideologie totalitarie, del dolore innocente e dell’emergere di ciò che è umano nell’uomo, pur dentro le atrocità e le violenze. Il primo testo offerto in classe in questi giorni è stata La Madonna Sistina (1955) […]. Scrive in merito al testo di Grossman una ragazza di 3B in un messaggio inviatomi nel pomeriggio su Teams: ‘L’umanità percepita nella Madonna Sistina si riesce a comprendere e a capire anche in tutta la gente ucraina. Dalle tante interviste si può intravedere quello sguardo umano, di quelle mamme, che come la Madonna Sistina, devono lasciare i propri figli al loro destino’. E precisa: ‘Questi sguardi colpiscono noi, noi che stiamo guardando da fuori la guerra tra i russi e gli ucraini. Noi cittadini che viviamo tranquillamente la nostra vita veniamo colpiti dall’evento e dagli sguardi di chi la battaglia la sta vivendo sulla propria pelle’. Poi si domanda: ‘E perché noi riusciamo a comprenderlo? Perché noi, come loro, siamo umani, abbiamo qualcosa di umano. Ci rivediamo in loro, ci mettiamo nei loro panni e quindi ci commuoviamo di fronte alla scena brutale che si sta attuando. Possediamo lo sguardo umano, che ci permette di riconoscere chi è come noi. E con questa unica arma cerchiamo di placare la guerra, di mostrare solidarietà e di stare vicino a coloro che si possono considerare fratelli, perché abilitati in umanità’. In classe abbiamo condiviso il desiderio di non voltarci dall’altra parte, di non censurare, ma di accorgerci, di guardare e in questa prospettiva un altro ragazzo ha posto una domanda, rimasta aperta: ‘Se decidiamo di guardare tutto il dolore del mondo, come facciamo a rimanere felici?’. Abbiamo accolto la sfida contenuta in queste parole, ma il percorso è appena cominciato”.



“Insomma – scrive un docente di sostegno –, la questione rimane sempre la stessa: ‘Vale la pena vivere il presente?’. Siamo disposti a lavorare con i ragazzi su queste domande così personali?”.

Domande personali, che chiamano in causa i docenti e li invitano pressantemente a trovare innanzitutto risposte nelle loro discipline, perché a scuola si educa in primis attraverso di esse. Come si evince da quanto scrive una docente di arte delle superiori: “In questo periodo continua a ritornare la Russia affrontando il tema del senso del sacro, del trascendente e dell’astrazione come tratti tipici della cultura russa sia in terza liceo (iconostasi) sia in quinta (Kandinskij, paradossalmente Malevich). Si parla anche dei collezionisti russi di grande spessore culturale, della capacità di Kandinskij di scrivere in tedesco, del suo amore per la musica che è qualcosa di reale, ma intangibile, della necessità di esprimere un’interiorità, dell’amore per la madrepatria. Ogni volta che citiamo la Russia tutti sobbalzano, anche se convengono che sia un popolo di grande cultura e profondità. Stiamo sperimentando che quello che studiamo ci aiuta ad acquisire una profondità di giudizio”.

Ma le domande dei ragazzi sono talmente brucianti da chiamare in causa tutto l’io dell’adulto, le sue conoscenze e convinzioni, i suoi rapporti, la sua storia personale, come testimonia un docente di lettere delle medie, che ritrova il senso profondo del suo essere educatore in questa difficile situazione: “In 3A il tema della guerra, vicino agli argomenti di storia in svolgimento (dittature del Novecento), ha generato un grande interesse da parte di un nutrito gruppo di ragazzi. Un interesse aumentato dai miei contatti con il mondo russo (tra cui gli studi di mia moglie e il viaggio di nozze che ci ha portato anche in Siberia) che mi hanno mostrato, quasi inconsciamente, come particolarmente coinvolto nella questione. Questo interesse è iniziato come puramente da ‘chiacchiera al bar o da social’, per cui caratterizzato da una serie di interrogativi abbastanza superficiali. Ma questo inizio è durato veramente poco: i ragazzi si sono fatti guidare in modo agile attraverso l’intricato sistema di informazioni più o meno tendenziose, e abbiamo (qui il ‘noi’ è d’obbligo) lavorato bene nel tentativo di avvicinarci alla verità su questa o quell’altra cosa. Certo ognuno di loro, chi più chi meno ovviamente, si è trovato di fronte un gruppo di persone al lavoro: uno spazio di domanda che non viene risposta nell’immediato, ma che, prima di tutto viene ascoltata fino in fondo, arrivando anche a capire da cosa nasce questa o quella domanda. Un lavoro preziosissimo sull’umanità che viene coinvolta da questo conflitto: quella che sanguina a qualche migliaio di chilometri da casa (sia russa e sia ucraina) e quella che trema sotto i tetti delle nostre case comode e serene. In questo modo ci siamo svegliati. La coltre di torpore e inerzia in cui siamo sempre più spesso e facilmente ammantati e avvinghiati si è leggermente allentata e la classe è diventato un ambiente di vera educazione, dove fare una domanda (per quanto possa suonare stupida) non vuol dire rischiare di incorrere nel giudizio o nella sanzione, ma vuol dire mettere in comune un qualcosa, vuol dire comunicare, in senso etimologico.

Molti dei ragazzi, ma anche io stesso, ci siamo sentiti più preziosi nel nostro essere impotenti di fronte alle immagini di palazzi che esplodono e di famiglie che vengono massacrate su entrambi i fronti. Più preziosi perché abbiamo notato che non è scontato percepirsi legati, in modo strano e misterioso allo stesso tempo, a gente che non abbiamo mai incontrato e che mai sentiremo cantare o parlare. Abbiamo riscoperto il valore dell’umanità, della fratellanza umana: in piccoli frammenti, piccoli bagliori in un mare nero e appiccicoso come la pece. Ci siamo accorti, anche nella lettura del Buio oltre la siepe di H. Lee, di quanto sia in fondo irresistibile l’interrogarsi sulle vicende umane, sulle storie di persone, sui loro drammi e sui loro sogni. Una cosa che mi ha colpito proprio tanto è stata la disponibilità a farsi guidare, a farsi suggerire una lettura, piuttosto che un video, tanto che, dialogando anche con mia moglie, così attaccata alla sua ‘seconda casa’ russa, mi è quasi sorto spontaneo provare a ideare un lavoro che provi a mostrare la bellezza che la cultura russa contiene, a prescindere dal momento storico che l’ha generata (il progetto, nella fattispecie, è ancora assolutamente in nuce). Un progetto che, sono sicuro, troverebbe accoglienza e ascolto preparati dal lavoro in classe di tutti i giorni.
In classe mi è capitato di riconoscere alcune scintille luminose, alcune fiammelle di bene (come dice l’arcivescovo di Mosca Paolo Pezzi). Bagliori così assetati di olio per nutrirsi e per continuare a splendere, a vivere, a essere, che sarebbe quasi un peccato non dargli tutto quello che ho. Motivo per cui, l’ultimo guadagno di questo dramma è paradossalmente il mio lavoro. La mia coscienza come insegnante risulta interrogata ai massimi livelli, perché non si tratta solo di far capire alcuni aspetti dell’analisi del periodo, alcuni dettagli del nazismo o il significato di alcune figure retoriche, ma si tratta davvero di accompagnare i ragazzi a compiere i primi passi nel mondo”.

con il contributo di P. Bonari, P. Brizzi, A. Chiesa, M. Colombo, B. Crepaldi, F. Mauro, F. Minelli, D. Muzio, A. Piccinnu, S. Radice

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