“Non sono mai stato tanto attaccato alla vita”. È l’appassionata conclusione di “Veglia”, poesia di Ungaretti. La leggo con i miei studenti in questi giorni di una guerra mai per loro così vicina. Non lo faccio tanto per confortarli con un lieto fine, ma per captare in me e in loro, in dialogo con il poeta, ogni più piccola vibrazione dell’umano, una minuscola eco del cuore che ci permetta di accertare l’esistenza del desiderio d’infinito anche tra le macerie del momento presente.
Leggo anche “Dannazione”, sempre di Ungaretti, dove il paradosso si fa ancora più esplosivo. In essa si parla del desiderio di Dio di chi è “inscatolato” (è di un mio studente) come cosa tra cose mortali: “perché bramo Dio?”.
Tutti i miei studenti si sentono misteriosamente attratti da questi versi finali così spiazzanti, che pro-vocano, chiamano fuori. Qualcuno se ne difende con una delle armi di cui abbiamo dotato molti dei nostri giovani: lo scetticismo. E magari cerca di smorzarne l’urto, arrampicandosi su improbabili analisi geopolitiche. In entrambi i casi, però, sia che si rimanga stupiti sia che si tenti la fuga intellettualistica, la reazione indica che la provocazione è arrivata: come si può amare la vita, “bramare” addirittura Dio – un puro nome ormai, ma a cui, pur confusamente, molti ragazzi associano ancora un’idea di bene, di perfezione, di pace – se tutto intorno sembra morte? Chi è questo essere umano che sperimenta in sé la sete d’infinito e insieme l’agghiacciante sentimento della fine? Se lo chiedono i ragazzi; me lo domando anch’io con loro perché accuso la stessa vertigine.
Ma dopo il primo impatto la riflessione fa fatica a svilupparsi, perché c’è tanta paura nei miei studenti, ormai denunciata apertamente ai compagni senza remore di essere derisi. E la paura fa letteralmente scandalo, ostacola il cammino della conoscenza. È un senso di smarrimento e ansia che prende allo stomaco e disabilita la ragione. Non a caso l’aggettivo più usato nei dialoghi in classe a proposito della guerra è “assurda”, cioè stonata, un “discorde accento” non riducibile agli scadenti schemi logici tipo causa-effetto ai quali noi adulti li abbiamo abituati in famiglia e a scuola per interpretare comodamente il mondo e attutire l’urto del reale. E hanno ragione, non ci sta proprio la guerra nella misura del loro già conosciuto. Come non riesco io stesso a comprenderla. Insieme, siamo davanti al mistero del nostro essere. Questa, forse, è la scuola, o dovrebbe.
La guerra ai ragazzi fa più paura che il Covid. Il virus è un nemico terribile sì, ma percepito come “esterno”, una catastrofe naturale davvero imprevedibile e spaventosa, ma non imputabile, almeno direttamente, all’uomo. La guerra è tutta responsabilità nostra invece, frutto amaro della nostra libertà, nasce dalle nostre mani insanguinate. Essa rende palese ai ragazzi quel mysterium iniquitatis che non si vorrebbe mai ammettere, per cui desideriamo tutti la pace perché è un bene, ma facciamo la guerra che è il male. Perché l’uomo vuol tanto male a sé e ai suoi simili? E, soprattutto, “chi mi libererà da questo male” se siamo proprio noi a farlo?
Ecco, questo è il punto infiammato che può veramente generare terrore nei ragazzi, oggi più che in passato: la consapevolezza, già implicita nella domanda, che la soluzione non può venire dall’uomo, dagli altri, dai miei genitori, dai miei amici, dalla mia ragazza, dalla scuola, dalla scienza (come poteva sembrare con il virus), dal potere eccetera. Non basta tutto questo a togliere dal mondo il male generato dall’uomo. Sono toppe su un vestito vecchio.
I giovani, che non sono affatto insensibili come spesso si crede, lo avvertono bene. Anche perché, per molti di loro la guerra non è che lo sviluppo mostruoso e su larga scala di una violenza magari non sempre fisica ma già ampiamente sperimentata, subita – o esercitata anche – proprio da e con chi gli è più prossimo. In fondo, la guerra, non è che l’ennesima dimostrazione dell’inganno di cui si sentono spesso vittime: essere stati messi al mondo da soli a sopravvivere.
Eppure, la coscienza della propria solitudine di fronte al male che la spaventosa potenza della guerra può generare nell’esperienza, non è di per sé negativa, anzi, può essere l’inizio di un cammino al vero.
Scriveva don Giussani in Tracce di esperienza cristiana: “il senso di impotenza accompagna ogni seria esperienza di umanità. È questo senso dell’impotenza che genera la solitudine. La solitudine vera non è data dal fatto di essere soli fisicamente, quanto dalla scoperta che un nostro fondamentale problema non può trovare risposta in noi o negli altri”. Ma don Giussani, grande esperto di umanità, aggiunge che proprio la solitudine ci apre all’attesa, alla compagnia con gli altri: “uno che scopra veramente e viva l’esperienza della impotenza e della solitudine, non sta solo. Soltanto, anzi, chi ha l’esperienza della profonda impotenza umana e quindi della personale solitudine, si sente vicino agli altri, si stringe facilmente a loro, come gente smarrita senza rifugio in una bufera, e il suo grido lo sente come grido di tutti, e la sua ansia e la sua attesa sente ansia e attesa di tutti”.
Penso che il grandioso movimento di solidarietà a favore dei rifugiati dalla guerra, documenti ampiamente la verità della riflessione di don Giussani. Il riconoscimento del comune bisogno è il vero generatore di un’amicizia che cerca la pace.
Ora, il problema è che i giovani non vedono intorno a sé molti adulti che, amandoli, li aiutano ad accogliere il meraviglioso, ma drammatico, paradosso della loro esistenza come punto di partenza di un cammino alla felicità. Senza degli adulti disposti a riconoscere e ascoltare il grido spesso silenzioso e multiforme dei giovani, per accoglierlo senza giudizio e implicarsi in un’amicizia con loro, la solitudine – nel senso detto sopra – quella che i ragazzi sperimentano di fronti ai mali e alle prove piccole e grandi dell’esistenza, diventa una trappola paurosa e non una risorsa.
Quindi, come ha giustamente scritto su queste pagine Luca Ceriani c’è bisogno “che i ragazzi incontrino dei “maestri” che gli mostrino come stare al mondo”.
Aggiungerei che anche i grandi oggi hanno quasi tutti lo stesso identico problema dei loro figli e, se sono anche insegnanti, dei loro studenti: mancano di maestri. E siccome non si diventa “maestri” se non se ne incontrano altri, anche gli adulti hanno tante paure, tra le più grandi quella di non saper educare i propri figli.
Questo lo posso dire non sulla base di analisi sociologiche, ma per l’esperienza fatta in tanti anni di dialogo con genitori e colleghi a scuola, dai quali emerge chiaro la sete non di discorsi, ma di una compagnia adulta.
Nella mia vita ho incontrato per grazia tanti maestri e continuo ad imbattermi – non solo fisicamente, ma anche attraverso le loro opere – in questi tipi umani eccezionali di cui, man mano che vado avanti negli anni, paradossalmente ho sempre più bisogno.
Se dovessi indicarne i tratti comuni, direi che sono innanzitutto persone che non temono la loro solitudine ma se ne avvantaggiano, ciascuno secondo il proprio temperamento, come forza per cercare amici con cui entrare sempre più nella realtà e perciò generano compagnia. Sono uomini e donne che non mi lasciano mai tranquillo, punzecchiandomi con le domande che emergono dalla loro esperienza e con le quali stanno facendo un lavoro di paragone che non ritengono mai concluso. Sono gente dal pensiero incompiuto, direbbe papa Francesco, “che cercano un “di più”, e così contagiano questo atteggiamento” (Discorso al mondo della scuola, 2014), mettono in movimento chi li incontra.
Maestro per me è chi vive il reale fino in fondo e rischia con le sue domande. A conti fatti, penso che il mio lavoro sia molto semplice, piccolo forse, ma decisivo: fare conoscere questi “maestri” a chi, grande o piccolo che sia, mi trovo attorno, soprattutto in queste ore.
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