Esiste una categoria di allenatori che durante il precampionato si prepara senza i calciatori: sono gli insegnanti, che i primi giorni di settembre si ammanettano alla burocrazia. Facendo i conti senza l’oste, avevano deciso non solo a quale sport giocare, ma anche con qualche schema tattico (il 3-4-3), e per ogni classe – ignorando non appena gusti, storie e stili di apprendimento, ma perfino facce, nomi e cognomi dei loro gertrudini – avevano pianificato programmazioni, gite e nodi concettuali.
Ed ecco che, una mattina di settembre, si materializzarono gli intrusi. Per il 3-4-3 non c’era scampo: quei ragazzi concreti non rientravano nello schema. Ormai però il pranzo era bell’e preparato: adesso spuntavano tutti questi intolleranti al glutine, al lattosio, allo studio. Ai miei tempi o mangiavi questa minestra o ti buttavi dalla finestra. Ritrovarsi in classe un disabile voleva dire mandare il programma a farsi friggere. Per non parlare di sfaticati, teste calde, farfalline, indecifrabili. Il medico decise di prescindere dal caso particolare e tirò fuori il prestampato: una diagnosi buona per qualsiasi malato. E l’insegnante si affidò a collaudate risposte generali applicate a ragazzi particolari, come si era sempre fatto.
Eravamo in seconda, e lì – da che mondo è mondo – in italiano si fa la poesia. Cosa meglio dell’Infinito per cominciare? Torna utile almeno per mostrare degli endecasillabi. “Sempre caro mi fu quest’ermo colle, / e questa siepe, che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. / Ma sedendo e mirando…”. Alle orecchie di qualche studente quel gerundio suonò vagamente familiare: “Ma sedendo e mirando…”. L’insegnante andava avanti, ma il ragazzo era rimasto lì, la testa appresso a quella rima. “Sedendo e mirando”: dove l’aveva sentita? “Sedendo e mirando… ti stavi preoccupando… sedendo e mirando… shakerando shekerando”. Le orecchie shakerarono gerundi confusi, un po’ Leopardi e un po’ tormentone, un po’ aula e un po’ spiaggia, un po’ noia e un po’ alcool, un po’ oggi e un po’ ieri.
L’insegnante continuava a naufragare fra parole lontane, mentre l’alunno era ormai “di là da quella” classe, fantasticando la sua vita reale, le sue serate, le sue porcate, le sue giornate estive buttate via con un telefono in mano.
Ci sono almeno cinque possibili svolgimenti per la traccia “La distanza fra la scuola e la vita”:
1. non sapere di cosa stiamo parlando, tanto si è abituati alle maschere: se ne toglie una, se ne indossa un’altra (calarsi nel ruolo, lasciare fuori la vita privata e arlecchinate simili);
2. sapere di cosa stiamo parlando, ma anche di non poterci fare niente, e procedere a testa bassa coltivando il giardino del proprio programma (e diventando così complici della distanza);
3. ammorbare i malcapitati con inutili discorsi edificanti su quanto la scuola sarà importante per la vita (“bisogna… dovreste… la società…”);
4. assimilare la scuola e la vita, anche detta sindrome di Peter Pan (insegni musica e il primo compito che assegni è ascoltare La dolce vita di Fedez, che è un po’ come sostituire i vetusti piatti di ceramica con dei piatti di plastica per strizzare l’occhio ai gggiovani ma insistendo nel solco di una logica da boomer: se i piatti di plastica li ricicli, non ti è chiaro che l’usa e getta non si tratta come un classico);
5. sperare che la vita accada a scuola, e accadendo sia lei a rompere l’estraneità.
“Ho provato a parlare al mio pianoforte / ho provato a parlare alla mia chitarra / a parlare alla mia immaginazione / mi sono affidata all’alcool / ho provato e provato e provato ancora di più / […] Mi sento stupida quando canto / nessuno mi sta ascoltando / parlo alle stelle cadenti / ma mi fraintendono sempre / mi sento stupida quando prego / allora perché sto pregando / se nessuno sta ascoltando? / Qualcuno, per favore mandatemi qualcuno / Signore, c’è qualcuno?”.
Mentre il primo giorno ascoltavamo Anyone di Demi Lovato (un testo: si può anche pescare fuori dalle antologie!), una ragazza non è riuscita a trattenere i lacrimoni: in quell’istante la scuola e la vita si stavano incontrando. La prima settimana è successo anche altre volte: al suono finale della campanella nessuno voleva rovinare dei silenzi intensissimi, qualche messaggio pomeridiano o notturno ha toccato – senza che nessuno lo avesse chiesto – le corde più intime della propria anima. Non per tutti è così sorprendente, la prima settimana. Vale la pena scavare dentro queste promesse, passare le albe a rimuginarci, come Pasolini “cercando infinite lezioni / a un solo verso, a un pezzetto di verso”.
Per questa ossessione che la scuola serva a qualcosa (non al lavoro: a te), il secondo lunedì oso un’interrogazione anomala: come ha inciso la prima settimana di scuola sul tuo primo fine settimana?
Tolto l’imbarazzo, nelle risposte c’è poco sugo: quei due mondi rimangono paralleli, minacciati da una valanga di colpi di spugna. E venerdì 23, com’è vuota la scuola: basta uno slogan qualsiasi, e il nulla li risucchia, alla faccia degli istanti di verità. Bisognerebbe smetterla con le parole, e ricominciare dalla vita fuori dall’aula, come intuiva Pavese: “La cultura deve cominciare dal contemporaneo e documentario, dal reale, per salire – se è il caso – ai classici. Errore umanistico: cominciare dai classici. Ciò abitua all’irreale, alla retorica, e in definitiva al disprezzo cinico della cult. classica – tanto non ci è costata niente e non ne abbiamo visto il valore (la contemporaneità al loro tempo)”.
L’anno scorso, un martedì mattina, tre ore consecutive erano state segnate da uno scoppiettante accanirsi di interventi su Petrarca e sull’effimero; il giorno dopo mezza classe andò a Roma, e il martedì successivo chiesi se si fossero ricordati almeno una volta non dico di Petrarca, ma di quello che tanto convintamente avevano loro stessi affermato il giorno prima. Niente, assolutamente niente. Cosa fare, nelle restanti due ore e cinquanta, e nel resto dell’anno? Passare all’autore successivo? Ritirarsi a vita privata?
Canto Brunori: “Passami il mantello nero / il costume da torero / oggi salvo il mondo intero / con un pugno di poesie”. Anche domani tornerò a mostrare come una poesia mi stravolga la vita, e come la vita mi stravolga una poesia. E dentro di me spero l’insperabile, come mi ha insegnato Eraclito. È già successo, potrebbe riaccadere. Non sto forse leggendo liberamente, da quest’estate, tutti i canti del Paradiso insieme ai miei alunni appena maturati? non ci vediamo il sabato a pranzo con ragazzi che non hanno paura di avere un cuore? non c’è forse qualcuno che di nascosto ha pianto, questo fine settimana, pensando alle parole di Leopardi che davano voce al proprio cuore? e io e tanti miei alunni come mai non vediamo l’ora che la mattina “ricominci l’inaudita scoperta”?
È la scuola vera, la vita vera. Solo due verità si incontrano. Due menzogne si urtano e basta.
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