I risultati delle prove Invalsi di quest’anno sono impietosi. Non rappresentano tuttavia uno stravolgimento del trend degli anni precedenti; semplicemente lo accentuano. Il sistema scolastico dimostra in modo ancor più macroscopico il suo fallimento rispetto alla sua funzione pubblica: essere fattore di equità e di promozione sociale e civile, soprattutto verso chi si trova in condizioni di svantaggio. La scuola non solo riproduce le differenze sociali e territoriali, ma pare anzi accentuarle e riconferma la sua incapacità di tenuta verso chi ha più bisogno. I dati della dispersione sono infatti ancora in crescita.



Colpa della Dad? Cerchiamo di non essere ridicoli. Quando hanno dubbi sulla condizione di salute del cuore, i medici prescrivono un elettrocardiogramma da sforzo. Rispetto all’Ecg basale, quello da sforzo offre infatti maggiori informazioni sullo stato effettivo del cuore perché ne aumenta il lavoro, evidenziando eventuali patologie non riscontrabili a riposo. Potremmo dire che la situazione emergenziale creatasi con la pandemia e l’adozione della Dad per la scuola italiana hanno rappresentato l’analogo di un test da sforzo. Il problema dei risultati Invalsi non deriva dalla Dad (che, sia ben chiaro, speriamo al più presto di ridimensionare tornando in presenza), ma dalla condizione ischemica del sistema. Chiudere gli occhi di fronte a questa realtà è davvero gravissimo.



Ma dov’è che si manifesta maggiormente questa crisi? Dove, quindi, occorrerebbe iniziare a mettere mano, in modo deciso, senza prescrivere possibilmente semplici aspirinette?

Il dato evidente è quello dell’inattendibilità del sistema valutativo, fuori controllo, perché lasciato alla variopinta e differenziata molteplicità degli approcci dei docenti. Al lato valutativo fa poi da contraltare – in fondo sono due lati della stessa medaglia – quello didattico-formativo, ossia l’inefficacia sul piano dello sviluppo degli apprendimenti. Ciò che di fatto non entra a livello di prassi ordinaria, in particolare nel segmento secondario, è la personalizzazione del curricolo. Il sistema infatti è strutturato in tutt’altro modo e la logica che tutto governa è quella della medietas: la didattica è rivolta a quel medio che è il gruppo classe; la valutazione non è finalizzata a cogliere i passi realizzati dalla persona, ma ne fotografa (male) un’astratta media di risultato.



Pensiamo alla nostra esperienza scolastica passata e a come oggi stanno ancora le cose. Purtroppo nulla è cambiato. Si discute (cardio-aspirenette!) se utilizzare voti o giudizi, di quali schede adottare, di come introdurre strumenti che documentano le competenze (curricolo dello studente), ma la sostanza del processo non viene toccata. Valutare significa “dare valore”. Se si tratta di apprendimenti, questo dovrebbe significare mettere in evidenza e dare peso agli incrementi realizzati in rapporto al punto di arrivo, definito in rapporto a un parametro (livello) standard, uguale per tutti. Ma come è possibile effettuare questo riscontro se ad es. – perché così nella generalità dei casi ancora accade – la soglia di accettabilità (sufficienza) viene stabilita sulla base dei valori mediani ottenuti dal gruppo? E se i punteggi si appiattiscono nel range attorno alla sufficienza, perché ancora a qualche docente viene il mal di pancia a dare voti “bassi” (sotto il quattro) o darne di “alti” (sopra l’otto)? O, peggio, perché le prove somministrate non permettono – così come è, invece, per quelle Invalsi – di discriminare pienamente i livelli?

Se sono in un gruppo classe con livelli mediamente bassi mi verrà certificato come sufficiente il mio livello basso; se ho acquisito o posso acquisire di più, questo non potrà risultare da nessuna parte. Così in generale io non so dove mi trovo, non ho riscontro effettivo dei passi fatti e da fare. Sto nella zona mediana e mi adeguo. Dall’altra parte anche al docente non giunge un ritorno su chi tra gli studenti fa più fatica e nella testa non si accende nessuna lampadina di allarme sulle possibili carenze del proprio operato. Semplicemente non risulta e quindi non si pone il problema stesso della sua scarsa efficacia. E poi perché per attribuire il voto finale si fa la media aritmetica dei voti di tutto il periodo, invece di considerare il punto di arrivo effettivo dello studente? Sarebbe come dire che se in quattro mesi sono passato da un metro e 60 a un metro e 70, allora sono alto 1,65. Il che non è vero; la certificazione non corrisponde alla realtà.

E ancora: perché all’inizio di ogni anno c’è una sorta di azzeramento generale e tutti (nel gruppo classe) si riparte dallo stesso punto? Perché non si tiene conto delle progressioni di ognuno, in modo tale che lo studente possa ripartire dal livello già raggiunto e progredire, da lì, verso la propria eccellenza?

Questa pratica valutativa è il contraltare della mancanza di una reale personalizzazione del curricolo. È come se a scuola si somministrasse sempre la stessa minestra, nelle stesse dosi e nello stresso modo a tutti, senza sostanziali distinzioni. Nonostante le belle dichiarazioni contenute nei testi normativi e nelle Linee guida ministeriali, la didattica continua – per condizioni strutturali, più che per cattiva volontà dei docenti – a essere erogata per compartimenti stagni (le discipline) e rivolta al gruppo classe. Nell’apprendimento il problema è quello del come far superare le difficoltà, valorizzando lo stile e le risorse di ognuno, permettendogli di fare anche con tempi diversi il proprio percorso.

In questa prospettiva, se lo scoglio è ad es. la matematica, è forse inutile, se non dannoso, continuare a riproporla ossessivamente nello stesso modo (da “programma”), sia in classe, sia nei vari corsi e corsettini di recupero. Perché non rinforzare quelle dimensioni non solo di ordine logico-formale, ma anche pratico, visivo, estetico implicate in questa forma del sapere? Perché non fare leva in modo più esplicito e mirato sullo sviluppo di quelle dimensioni di competenza personali e sociali che sono l’autoefficacia, la tenacia nel raggiungere un obiettivo, il lavorare in gruppo, ecc.? Come motore e fattore motivazionale, certo, ma anche come parte costitutiva del curricolo.

Ora alle scuole sta arrivando un’altra pioggia di risorse. Ma il problema non è quantitativo, bensì di qualità. Se le attività promosse dal ministro Bianchi non ridisegnano una modalità sostanzialmente diversa di fare scuola, nulla cambierà. Così come il ritorno in presenza non invertirà il trend fallimentare documentato dalle prove Invalsi.

A proposito: perché il ministero non rende noti i dati concernenti il rapporto tra quanto è stato investito in questi anni in corsi e attività per il recupero (in particolare attraverso i vari progettini finanziati con il Pon) e i risultati ottenuti? Sarebbe davvero interessante incrociali con quelli Invalsi…

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