Il mondo scolastico, come ogni altro ambiente lavorativo, è sempre più condizionato dalla qualità delle relazioni che vi si instaurano. Quali sono i rischi più frequenti in cui si cade?
Primo: è sempre più evidente l’erronea convinzione che una persona possa, da leader solitario, cambiare una situazione. Che un professore illuminato possa guidare al meglio una classe, un responsabile d’indirizzo il suo dipartimento, un preside un intero istituto scolastico.
In nome di alcuni presupposti teorici ben saldi e chiari, in nome di alcune iniziative innovative che si hanno chiare alla mente, in nome di una strategia sulla carta più efficace e comunicativa, si finisce per cozzare contro il muro della realtà dei colleghi, dei ragazzi o dei docenti che difficilmente si adattano ai nuovi schemi. A quel punto il collega o il dipendente, o anche lo studente, diventano l’ostacolo disturbatore, l’elemento conservatore che “non capisce”, e quindi rallenta tutto il processo che si vorrebbe attivare.
Non è difficile rendersi conto di questa piaga: un prof che parla male dei suoi colleghi perché “non comprendono i ragazzi, invece io…”, un dirigente che vuole creare un nuovo indirizzo nel plesso scolastico (che magari per niente si adatta alla natura di quell’istituto, ma farebbe “passare alla storia” il suo nome proprio per la novità introdotta), un capo dipartimento che obbliga i suoi colleghi ad adottare un libro piuttosto che un altro “visto che le altre pubblicazioni sono tutte obsolete”…
Tale errore si fonda su una visione che non coglie due profonde verità. La prima, che solo una comunità – un villaggio – educa (come ripete spesso Papa Francesco). La seconda, che il cambiamento parte non da una preventiva pianificazione teorica, bensì dal mettere le mani in pasta su un particolare, su una situazione, tenendo gli occhi bene aperti su ciò che la realtà in quel caso vuole indicarci, sulla direzione insita dentro le cose, dentro le circostanze. Questo lavoro può esser portato avanti solo “insieme”, non uno sull’altro, condividendo insieme “in azione” un pezzo di realtà e cercando di sottolineare – uno all’altro – i segnali che dalla realtà emergono.
Il secondo grande rischio in cui è facile cadere sono la maldicenza e il pettegolezzo, tentazioni letali in ogni ambiente scolastico. Sembra non si riesca a farne a meno, tanto sono forti e inestirpabili. Si potrebbe addirittura affermare che se Dio ha permesso all’uomo di collaborare con Lui nella creazione continua dell’universo, nell’uso delle risorse e nella costruzione di un mondo più vivibile, il demonio cerchi di impedire questo “lavoro costruttivo” proprio attraverso l’invidia, le parole dette alle spalle, il rancore interiore. Riguardo a questo aspetto non credo ci sia bisogno di fare esemplificazioni: è così presente, così forte, così evidente nelle nostre scuole che lo abbiamo continuamente sotto gli occhi. Cosa si può dire su queste “lingue lunghe”, che sono fardello di ognuno di noi? Nulla. Sembra quasi che occorra rassegnarsi a tale oscurità. Però ci si può accorgere di due aspetti. Uno è che questi “difetti” appartengono a tutti noi, ma principalmente a chi vive una insicurezza esistenziale di fondo; a chi vive il lavoro non come contributo alla realizzazione del destino del mondo, ma a chi lo svolge per colmare una “solitudine affettiva”, una “insoddisfazione esistenziale” di fondo. Costoro usano il lavoro per affermare se stessi, non per costruire un bene comune.
L’altro aspetto è che fa molto meglio chi dice apertamente le cose che pensa e vede, chi le mette a confronto – magari col rischio di toccare la suscettibilità dell’altro – senza farle pesare dall’ombra dei gruppuscoli o delle amicizie complici e sotterranee. Meglio un ambiente in cui si litiga, si discute animatamente, che una scuola in cui c’è un finto perbenismo che nasconde veleni e accuse taciute.
Sembra nulla, ma cominciare a rendersi conto di tali situazioni può far meglio alle scuole dei fondi del Pnrr.
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