Un suggerimento ai politici: perché non smettono di dichiarare (tutti) che la scuola e l’istruzione è in testa ai loro programmi? Educhino prima sé stessi. Stanno dando al Paese un’immagine pessima non solo della politica, ma di loro stessi. La storia di una comunità, di una nazione, di un organismo tenuto insieme dalla memoria del proprio passato e da una qualche aspettativa riguardo al proprio futuro è anche una storia di immagini. Nei libri di testo di storia l’iconografia ha assunto un peso indubbiamente decisivo rispetto ad un tempo in cui il libro era nient’altro che un’agghiacciante successione di asettiche colonne stampate. L’apprendimento degli alunni o dei lettori ha esigenze molto precise e l’apparato figurativo serve a specificare una categoria, un concetto, un periodo storico. Questo è vero per tutte le età e per ogni livello di istruzione. Magari per i più piccoli le immagini sono più funzionali all’immedesimazione nell’esperienza raccontata, per i più grandi servono a comprendere un fenomeno.
Ci sono poi immagini, e veniamo a noi, che hanno esse stesse un valore storico. Non sono cioè al servizio del testo, sono esse stesse testo. La foto della Conferenza di Yalta del 1945 con Roosevelt al centro, ormai fuori gioco, e Churchill e Stalin ai lati, con quest’ultimo che guarda sornione davanti a sé è la rappresentazione dell’inizio della spartizione bipolare del mondo. C’è poco da aggiungere. La foto del Muro di Berlino che viene abbattuto nell’89 dai manifestanti è un documento in sé e trasmette la fine di quella divisione cominciata con la foto di cui prima.
La storia politica della nostra recente democrazia presenta, quantomeno, due immagini programmatiche. La prima è quella del “re di maggio” Umberto II che dall’abitacolo dell’aereo che lo porterà in esilio saluta qualcuno che resta. Una foto “manifesto” della monarchia sabauda che ha perso la partita del referendum del 1946 con la democrazia. Il re se l’è giocata, ha perduto, saluta e se ne va. La seconda immagine storica è quella di Moro e Berlinguer, leader dei due massimi partiti della prima repubblica, la Dc e il Pci, che nel 1977 dai due lati di un tavolo si inarcano sorridenti per stringersi la mano. Non è un’immagine da oratorio, ma una foto capace di comunicarci una tensione positiva. Le due massime forze politiche italiane hanno fatto la scelta di collaborare e competere dentro l’alveo della democrazia rappresentativa. La stretta di mano significava riconoscersi reciprocamente, ma anche ammettere che per il Paese non c’era allora alternativa al dialogo tra le due più importanti formazioni sociali e culturali, egemoni in Parlamento e nella società. L’eversione terroristica ha poi frantumato quella foto e nella realtà dei fatti ucciso uno dei due interlocutori. Ciò non toglie che quell’avvicinamento, il “compromesso storico”, abbia avuto la forza di assurgere a immagine, a emblema, a rappresentazione universale di un modo di essere e fare politica.
Una politica che aveva una stretta attinenza con l’educazione. Non solo perché in tempi di contrasti radicali per accaparrarsi il dominio dello spazio politico (c’era la guerra fredda) la politica era un’attività riconosciuta e partecipata, ma soprattutto perché, in un certo senso, facendo attività politica ci si educava all’uso della ragione dialettica. Non è questo il luogo per analizzare i mille motivi che ci hanno trasbordato in un altro mondo. Gli scandali di Tangentopoli, la globalizzazione, la fine della rappresentanza partitica, la solitudine degli umani che anelano all’uomo solo al comando, ecc. E tuttavia non è scritto da nessuna parte che la politica oggi debba trasmettere ai giovani l’immagine di una divisione, di una contrapposizione personale, di uno squalificarsi a vicenda tra persone che non si ascoltano ma che hanno l’orecchio rivolto solo al proprio branco, di un cambiare opinione ad ogni piè sospinto come se le istituzioni fossero porte girevoli.
Politica ed educazione. Un binomio che oggi sembra lontano anni luce dal ricomporsi. Non perché si pretenda il confronto politico non gridato e non serrato. Se ci deve essere, ci sia! Ma perché si pretende, questo sì, che chi si arroga il compito di rappresentarci si sottoponga lui stesso all’esercizio della ragionevolezza, dell’ascolto anche delle ragioni dell’avversario (basterebbe solo questo per aprire un nuovo orizzonte), della pratica nobile del governo che è la risposta ai bisogni di una comunità che si muove e si organizza. Anche nel campo dell’istruzione, come mostrano i tentativi di tanti insegnanti che rischiano ogni giorno impegno e professionalità per i propri alunni in difficoltà.
Passiamo, in queste drammatiche ore che il Paese sta vivendo, dal politico che si fa il selfie al politico che si chiede dove sta la sua speranza. A pochi giorni dall’apertura di un nuovo anno scolastico, la politica, quella che si elabora nel “palazzo”, abbia cura di ripensare la propria sostanza. Guardi alla “polis”, non alla propria pancia.