Se il problema reale di un’educazione dell’umano non viene soddisfatta da tecniche didattiche ritenute “innovative”, resta viva allora una domanda. Cosa educa la persona?
La risposta non può che essere univoca: il docente. La dimenticanza di questa condizione è colpevole e volontaria, dovuta a una diffidenza della pedagogia che, negli ultimi decenni, forse allarmata dalla possibilità del plagio, ha insistito sull’idea dell’insegnante mediatore, figura di tramite tra la materia e lo studente o tra l’argomento e la classe concepita come comunità ermeneutica, perciò capace di analizzare e apprendere in modo autonomo e collaborativo sotto la supervisione del docente. Recalcati smonta questa visione senz’appello: “L’educazione non può avvenire seguendo l’illusione dell’autoformazione, ma solo grazie all’esistenza di almeno un Altro: un professore, un insegnante, un maestro, un docente. Non esiste autoformazione. Non c’è processo educativo che possa prescindere dalle condizioni dettate dall’Altro” (Massimo Recalcati, L’ora di lezione, Einaudi 2014, p. 63)
È proprio la figura del docente che può trasformare l’ora di lezione nella possibilità che accada il miracolo dell’educazione, ovvero che si accenda un fuoco (d’amore) come conseguenza dell’incontro tra lo studente e il tema proposto dal maestro (docente) attraverso il proprio vissuto.
Ancora Recalcati: “Cos’è, allora, un’ora di lezione? È un incontro con l’ossigeno vivo del racconto, della narrazione, del sapere che si offre come un evento. Se la parola sa incarnarsi in una testimonianza – se chi parla mostra che quel che dice ha un rapporto stretto con la vita del desiderio, se chi parla parla a partire dal proprio desiderio – gli oggetti del sapere acquisiscono lo spessore erotico di un corpo, si libidicizzano, si animano”. […] “Non c’è alcuna tecnica che possa compensare un’eventuale assenza di presenza. Capita ogni volta che un insegnante parla. Al di là di ciò che dice, conta da dove dice ciò che dice, da dove trae forza la sua parola. L’insegnante parla e non è altrove, ma qui con noi. Non vorrebbe essere in un altro luogo. Desidera essere dov’è. E questo gli rende possibile evocare con forza altri luoghi” (M. Recalcati, cit., p. 101).
Daniel Pennac, scrittore e insegnante, porta un esempio tratto dalla sua esperienza diretta: “È immediatamente percepibile la presenza del professore calato appieno nella propria classe. Gli studenti la sentono sin dal primo minuto dell’anno, lo abbiamo sperimentato tutti: il professore è entrato, è assolutamente qui, si è visto dal suo modo di guardare, di salutare gli studenti, di sedersi, di prendere possesso della cattedra. Non si è disperso per timore delle loro reazioni, non si è chiuso in se stesso, no, è a suo agio, da subito, è presente, distingue ogni volto, la classe esiste subito davanti ai suoi occhi” (Daniel Pennac, Diario di scuola, Feltrinelli, 2008, p. 106).
In realtà il mondo della scuola riconosce la decisività della figura del docente, salvo poi sostenerla in modo eccentrico. Innanzitutto perché oggetto della formazione sono normalmente tecniche come “gestione della classe” o “didattica digitale”; raramente lo sono i contenuti delle discipline. Il tema della formazione e dell’aggiornamento professionale è sempre in primo piano nel dibattito scolastico ma secondo una struttura di impianto militare, la quale presuppone “l’addestramento” di alcuni docenti nell’ambito scolastico di appartenenza sulle nuove pratiche (competenze, ed civica, multimedialità ecc..) perché gli stessi si facciano tramite della diffusione delle nuove tecniche ai colleghi del proprio istituto per raggiungere infine tutti gli studenti secondo una modalità a cascata che poco ha a che fare con l’erotismo dell’ora di lezione proposta da Recalcati. Si predilige l’applicazione di un sistema trasmissivo che mortifica la professionalità e interdice l’iniziativa personale in nome dell’omogeneità e del controllo su tematiche e procedure, confermando sempre più l’aspetto tecnicista denunciato da Galimberti. A questo si aggiunga il fatto che le modalità di apprendimento cui sono sottoposti i docenti, nella misura in cui sentano proprie quel genere di formazione e quell’aggiornamento, diventeranno poi stile del proprio insegnamento.
Quanto sarebbe invece auspicabile un sistema fondato sul docente testimone. Un docente che testimonia cosa? Un maestro che testimonia se stesso, il proprio amore per la disciplina insegnata, per la realtà tutta e per la vita. Quanto sarebbe auspicabile quindi la diffusione di esperienze di singoli docenti o di scuole che possano essere incontrati, ascoltati e imitati (con le necessarie personalizzazioni) da chi si entusiasma per il loro portato.
Perché l’ora di lezione (centro imprescindibile della scuola) brilli, serve innanzitutto un docente che prenda sul serio la propria esperienza umana e professionale e non sia interessato solo all’applicazione di sistemi o alla compilazione di documenti, ma che abbia chiari due punti decisivi:
a) la passione per la propria disciplina (ora e non quando era studente universitario), che viva cioè nel presente un desiderio intenso di imparare, di sapere, di essere competente nel proprio campo. Un sapere che non dipenda dalla reazione degli studenti ma che si regga da sé, che trovi in sé le ragioni del suo esistere e che perciò possa essere donato in modo amorevole e senza ricatto. A questo proposito sempre Recalcati afferma: “Il desiderio del professore è desiderio per il sapere, è desiderio di insegnare senza che vi sia una finalità intenzionale di formare. È il desiderio di insegnare, unito ovviamente alla conoscenza di ciò che si insegna, che produce effetti di formazione” […] Lo stile è il modo singolare con il quale un insegnante entra, lui stesso, in rapporto col sapere” (M. Recalcati, cit., p. 104-5).
b) un amore al discente e alla sua libera iniziativa perché la propria passione possa riverberare nello studente trovando un itinerario capace di raggiungerlo e accenderlo attraverso un linguaggio a questi comprensibile. La possibilità di plagiare lo studente non pone obiezioni, secondo Galimberti, perché è parte inerente il fascino del rapporto didattico, fascino che traghetta lo studente verso una passione per la materia e la tematica trattata e quindi per la realtà studiata. Ancora Recalcati afferma: “Il maestro è colui che sa dislocare il transfert amoroso mobilitato dall’allievo dalla sua persona all’oggetto del sapere. Egli è amato in quanto ama il sapere rendendo il sapere un oggetto che causa il desiderio dell’allievo. Un insegnamento deve innescare transfert, ovvero spinta, tensione erotica, trasporto” (M. Recalcati, cit., p. 47).
Affinché questo possa avvenire serve rimettere al centro della scuola ciò che normalmente resta sullo sfondo: l’ora di lezione come evento unico e irripetibile e, in essa, il contenuto della lezione non come nozione da svolgere, da acquisire e “restituire” (termine pedagogico terribile che indica quanto lo scopo non sia appropriarsi del sapere ma utilizzarlo come uno strumento qualsiasi), ma come luogo di scoperta di un’Alterità affascinante che diventi il centro del discorso (decentrando lo studente così come il docente), come luogo, percorso e strumento della scoperta di una parte specifica della realtà. Su questo tema Israel afferma: “La struttura disciplinare, nel corso di tutta la storia dell’umanità, è stata il riflesso del rapporto dell’uomo con la realtà. […] Esiste e continua a esistere da millenni un’astronomia perché fa riferimento a una sfera della realtà che ha una sua specificità anche se il modo in cui gli antichi vedevano il cosmo era radicalmente diverso da quello con cui l’hanno visto gli scienziati dell’epoca di Galileo e Newton e ancor più lontano da quello con cui lo vedono gli astronomi contemporanei. Ma la specificità disciplinare ha un fondamento nella realtà” (Cesare Cornoldi e Giorgio Israel, Abolire la scuola media, Il Mulino 2015, p. 84).
Dunque è la materia, è l’oggetto proposto dal docente attraverso lo stile del docente, cioè attraverso il suo personale modo di porlo, il valore che ha la potenza per attrarre lo studente. Il valore della materia può investire l’alunno quando ci sia un io (un maestro) acceso, infiammato da quello che osserva e studia continuamente (non il ricordo di ciò che ha studiato). Perciò è decisivo il programma, meglio sarebbe dire la programmazione; perciò sono decisivi gli argomenti scelti in relazione alle passioni dell’insegnante, all’età degli alunni e alle loro specifiche caratteristiche individuali e di classe; perciò sono decisive le modalità con cui vengono proposti tali argomenti. L’io dell’allievo si sviluppa in modo originale e pieno solo se in confronto (rapporto) con l’io del docente. L’educazione della persona, quindi del cittadino, dello studente passa attraverso un contagio, è come un virus che ci si passa per vicinanza, per contatto, a patto che ci siano due parti attive: il docente appassionato e desideroso non di riempire teste ma di affermare un metodo di ricerca, di analisi, un modo per sollecitare domande e uno studente libero di prendere sul serio e verificare la proposta di lavoro del proprio docente.
Una scuola che abbia al centro l’ora di lezione può essere più che un sogno ed è realizzabile laddove ci sia un docente dedito anima e corpo al proprio mestiere, ovunque ci sia un uomo alle prese con se stesso e col senso delle sue azioni.
Ma cosa guadagna l’insegnante per offrire tutto se stesso nell’ora di lezione?
Ancora Recalcati offre una testimonianza sorprendente soprattutto per le vicende politiche che rendono noto il protagonista: “I veri insegnanti sono quelli che hanno fatto nascere domande senza offrire risposte precostituite. Per questa ragione Giovanni Gentile ha potuto affermare che solo quando usciva dall’aula con la sensazione di aver appreso qualcosa che a lui stesso sfuggiva prima di cominciare, poteva considerare che quella era stata davvero un’ora di lezione. Ogni bravo insegnante non è tanto colui che sa, ma colui che, per usare una bella immagine del padre sopravvissuto celebrato da Cormac McCarthy in La strada, sa portare il fuoco” (M. Recalcati, cit., p. 112).
Ma ancora più esplicita nel chiarire la posta in gioco per l’insegnante che è la costruzione del proprio io umano e professionale si trova testimoniata nel romanzo Stoner di John E. Williams, dove un docente universitario, la cui vita è ricca di inciampi e fallimenti, scopre all’improvviso il valore dell’ora di lezione: “[…] di tanto in tanto, durante le lezioni, si ritrovava così immerso negli argomenti che non solo si dimenticava della sua inadeguatezza, ma anche di se stesso e perfino degli studenti che aveva davanti. A volte veniva così preso dall’entusiasmo che balbettava, gesticolava, e ignorava gli appunti che di solito guidavano le sue spiegazioni. All’inizio quelle esternazioni lo infastidivano, quasi tradissero un’eccessiva familiarità con la materia e se ne scusava con gli allievi. Ma quando quelli cominciarono ad andare da lui dopo le elezioni e a mostrare, nelle esercitazioni scritte, tracce di immaginazione e di crescente entusiasmo, si sentì incoraggiato a fare quello che nessuno gli aveva mai insegnato. L’amore per la letteratura, per il linguaggio, per il mistero della mente e del cuore che si rivelano in quella minuta, strana e imprevedibile combinazione di lettere e parole, di neri e gelidi caratteri stampati sulla carta, l’amore che aveva sempre nascosto come se fosse illecito e pericoloso, cominciò a esprimersi dapprima in modo incerto, poi un coraggio sempre maggiore. Infine con orgoglio. […] Sentiva che finalmente cominciava a essere un insegnante, ovvero un uomo che semplicemente dice quel che sa, traendo dalla sua professione una dignità che ha poco a che fare con la follia, o la debolezza, o l’inadeguatezza dei suoi comportamenti privati. […] Il seminario fu un successo, uno dei migliori corsi mai tenuti da Stoner. Fin da subito, le implicazioni dell’argomento catturarono l’attenzione degli studenti e in classe si diffuse quell’eccitazione che si prova quando ci si accorge che il tema trattato è al centro di una questione ancora più ampia e, approfondendolo, potrebbe condurre chissà dove. Il seminario prese vita da solo e gli studenti ne restarono a tal punto coinvolti che lo stesso Stoner divenne semplicemente uno di loro, dedicandosi alle ricerche con la medesima diligenza. […]” (J.E. Williams, Stoner, Fazi 2016, pp.132-3).
(3 – fine)
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