Del tema life skills (competenze per la vita) e character skills (competenze che hanno a che fare con la personalità e il carattere degli individui) si dibatte oramai da alcuni anni tra persone di scuola (docenti, presidi, anche genitori) ed esperti del settore, delle più svariate discipline: da economisti a psicologi, da pedagogisti a scienziati politici.
Anche il Meeting di Rimini, da sempre attento all’educazione e ai giovani, proverà ad affrontarlo nell’incontro di oggi, partendo da esperienze in atto e dialogando con personalità di rilevanza internazionale.
Le capacità non cognitive sono definite in vari modi, per quanto non perfettamente equivalenti: character skills, soft skills, non cognitive skills, tratti di personalità, competenze o abilità non cognitive, competenze socioemozionali. Si tratta di dimensioni che ogni educatore ha ben presenti, che osserva e che tiene presenti nel rapporto educativo, ma che molto spesso non vengono esplicitate e che quindi rimangono rinchiuse in un ambito soggettivo e non condiviso.
Il primo passo, decisivo, è quello della loro definizione. Definire equivale a delimitare un campo semantico. Si tratta dunque di un’operazione – che implica opzioni – di carattere linguistico, ma che comporta precise conseguenze anche sul piano pratico (formativo e valutativo) e che dovrebbe essere compiuta da ogni singola scuola nell’ambito della propria autonomia, legata alla sua identità e al suo scopo.
Affrontare il tema delle competenze socio-emozionali richiede innanzitutto una serietà dell’educatore rispetto a colui che ha davanti, al ragazzo. La persona del ragazzo è qualcuno, non qualcosa da costruire
Per tenerne conto occorre innanzitutto imparare ad osservarle. Il cercare di misurarle poi non ha certo la pretesa di esaurire la conoscenza e il mistero che ogni persona è, ma significa avere più elementi per stare di fronte all’individualità dei ragazzi.
Come devono essere osservate? Non possiamo affidare una lettura così rilevante, indispensabile per costruire percorsi di studio personalizzato, a test di autovalutazione, spesso astratti; le competenze socio-emotive devono essere osservate in azione e in un contesto, sotto gli occhi di un “maestro” che aiuta a leggere e a portare a galla ciò che spesso non viene colto dagli occhi del ragazzo. Soprattutto è necessario passare dall’implicito (il percorso di osservazione che ogni serio educatore compie), all’esplicito, alla condivisione con tutto il corpo docente innanzitutto, per poi passare ad una condivisione con le famiglie e con i singoli ragazzi.
Le esperienze raccolte in tutta Italia, anche grazie ad una ricerca sviluppata dalla Fondazione per la Sussidiarietà, hanno raccontato che quando le competenze socio-emozionali sono state affrontate in modo condiviso e partecipato da tutta la comunità educante hanno coalizzato la comunità professionale intorno ad obiettivi chiari e hanno caratterizzato l’ambiente di apprendimento, hanno interrogato le stesse competenze dei docenti e l’offerta formativa ed educativa che caratterizza la scuola.
Un altro quesito da affrontare è: come dare rilievo ed efficacia in ambito formativo a queste dimensioni? Come renderle oggetto di sviluppo formativo e dare loro evidenza sia all’interno – alla persona che è in formazione –, sia verso l’esterno, al mondo del lavoro?
L’ipotesi risolutiva, divenuta pista di lavoro, è stata individuata nel fatto che le dimensioni personali devono avere uno specifico rilievo, per poter essere: a) in prima battuta definite ed assunte in sede di progettazione formativa; b) quindi “messe in valore”, cioè accertate, valutate e formalmente attestate.
Pertanto un altro tema cruciale che sarà affrontato nell’incontro del Meeting sarà quello della “valutazione” delle competenze socio-emozionali, nel senso di “mettere a valore”, cioè osservate e accertate per poter essere stimolate, approfondite, sviluppate e potenziate. Se tali competenze non potessero essere sviluppate, se fossero immutabili, sarebbe certamente inappropriato misurarle. Se invece si dispone di importanti evidenze atte a indicare che la scuola e gli educatori possono fare la differenza (ogni insegnante sa bene che l’educazione è per sua natura un atto di speranza), e che tali competenze possono essere apprese e insegnate in maniera analoga a quanto avviene per altre materie, il non attribuire un rilievo specifico a dimensioni quali ad esempio “lavorare con gli altri”, il “risolvere problemi”, l’“autoapprendimento” ha quale conseguenza che il loro sviluppo, anche laddove è realizzato, non risponde a modalità condivise, rimane implicito ed è di fatto lasciato alla libera individuale iniziativa e interpretazione dei docenti. In tal modo dimensioni decisive per la persona, che dovrebbero essere poste al centro dell’azione formativa ed educativa, finiscono in quel calderone dell’indifferenziato che è il cosiddetto voto di comportamento, a cui spesso viene attribuito ben poco peso e valore.
Il bilancio delle sperimentazioni fin qui realizzate è estremamente positivo, a patto che vengono rispettati alcuni elementi indispensabili come la gradualità, la coesione del corpo docente e il suo accompagnamento, la verifica costante dell’applicazione e degli impatti, l’esplicitezza.
L’acquisizione di competenze socio-emozionali è nello stesso tempo l’esito di un percorso scolastico positivo, sia la causa, qualora venga a mancare, del suo abbandono o della difficoltà di inserimento lavorativo al suo termine. Vale la pena che la scuola su questo si interroghi.