Forse è il caso di astenersi dal commentare la scelta del ministro Valditara di avvalersi, rispetto alla “educazione alle relazioni”, di alcuni noti intellettuali in veste di consulenti esterni: la polemica ha acquisito dei toni sgradevoli di partigianeria politica. È bene, tuttavia, che il ministro si rivolga all’esterno, perché i consiglieri interni hanno uno sguardo inevitabilmente “riproduttivo”, poco adatto a innovare. E tuttavia gli esterni non debbono essere totalmente estranei al mondo della scuola, altrimenti le loro idee, ancorché originali, risulterebbero poco calzanti. Raccomanderei, infine, al ministro – e mi scuso perché apparirà superfluo – di non scambiare la notorietà televisiva con una selezione di merito: i talenti televisivi spesso non vanno oltre lo schermo.



Ciò posto, si introdurranno trenta ore annuali di “educazione alle relazioni” sia dentro l’orario mattutino, cioè nelle materie previste dall’orario curricolare, sia in quello pomeridiano, ovvero extracurricolare. Nelle scuole superiori esse saranno realizzate da docenti appositamente preparati, che sappiano condurre gruppi di lavoro, proponendo agli alunni delle discussioni atte a far emergere la consapevolezza degli atteggiamenti istintivi e inconsulti, che tralignano in violenza e nella conseguente commissione di reati. Ovviamente una tale consapevolezza costituirebbe la condizione preliminare per i cambiamenti.



Non sarà facile per i docenti attuare quegli insegnamenti i quali, più che una preparazione ad hoc, richiedono una formazione di natura psicologica e sociologica complessiva, che invece è del tutto estranea alla professionalità della maggior parte di loro. Forse sarebbe stato meglio prendere più tempo e riflettere più a fondo perché, sebbene il ministro Valditara neghi di aver elaborato il progetto di educazione alle relazioni come reazione all’omicidio Cecchettin, la straordinaria successione tra l’impatto emotivo scioccante di quell’evento presso l’opinione pubblica e la pressoché immediata presentazione delle linee guida del progetto, poste all’interno del ddl Roccella, suscita qualche perplessità.



Una tale tempestività, se risponde alle esigenze di normalizzazione che una parte della società vive a seguito di eventi traumatizzanti (è successo l’imponderabile, ma lo Stato reagisce…), non placa però gli inquietanti interrogativi di molti docenti e dirigenti che dubitano delle risposte immediate, le quali paiono rispondere a una logica di pancia più che a scelte ponderate.

Ma il punto che maggiormente pone dei problemi è che l’attività per le corrette relazioni, come quella di educazione alla cittadinanza e quelle che saranno svolte dai tutor e dagli orientatori, pare rispondere a una logica disciplinaristica, cioè di affermazione di nuovi contenuti d’insegnamento. Molti obietteranno che tali interventi non prevedono per il momento dei voti (salvo l’educazione alla cittadinanza che è entrata a pieno titolo negli scrutini di fine anno e perfino nell’esame di Stato), ma, con i voti o senza, essi eserciteranno comunque un’influenza sulle valutazioni.

Inoltre, proprio perché sono definite una metodologia di intervento, degli orari e dei contenuti (non a caso i docenti tutor e orientatori hanno partecipato ad appositi corsi di formazione e ciò varrà anche per l’educazione alle relazioni), le attività in questione finiscono per assomigliare a nuove discipline.

Si potenzia, così, quella che il sociologo Basil Bernstein definisce come la struttura dei curricoli “a collezione”, che classifica i contenuti, li gerarchizza (oggi la relazionalità assume certamente una priorità) e li colloca in un contesto di relativo isolamento gli uni dagli altri. Gli alunni, così, devono “collezionare” quei contenuti, che definiranno la loro preparazione complessiva. In tal senso, tutte queste nuove educazioni paiono costituire dei nuovi insegnamenti, assumendo una veste disciplinaristica. Ma oggi la pedagogia più avanzata mette in discussione una tale logica, criticando lo statuto epistemologico particolaristico delle varie discipline, che si affiancano le une alle altre e trascurano le aree di intersezione. Proprio quelle aree dove, invece, i contenuti di quelle nuove educazioni e interventi avrebbero potuto trovare una collocazione adeguata tra le discipline esistenti. Scriveva Edgar Morin, alcuni anni fa, che “la supremazia di una conoscenza frammentata nelle diverse discipline rende spesso incapaci di effettuare il legame tra le parti e la totalità (…)”.

Siamo certi che occorrano nuovi insegnamenti anziché affrontare il tema delle relazioni tramite Aristotele, Kant o Leopardi? Purtroppo si è scelto di accrescere gli insegnamenti, dotandoli di specifici carichi orari annuali, frammentando così ulteriormente i saperi.  Soprattutto, queste nuove suddivisioni non rispondono a una visione olistica dell’alunno, che non vive certamente, nella sua persona, la frammentazione di ciò che egli acquisisce. L’apprendimento, infatti, si riverbera nelle competenze che egli utilizzerà nella vita e che agiranno al di là delle discipline, fruendo unitariamente della formazione ricevuta.

Resta la domanda sul perché si siano compiute queste scelte. La risposta è che non si poteva fare affidamento sulle singole scuole, che non avrebbero potuto affrontare la questione avvalendosi della loro autonomia. Quest’ultima, infatti, funziona male e quelle educazioni probabilmente sarebbero state trascurate, così come è avvenuto fino a oggi. Ma, se la scuola funziona male, il problema è esattamente questo malfunzionamento, e non giova inventarsi nuove educazioni. Se continuassimo così, quante ore dovremo attribuire all’educazione stradale per evitare gli incidenti mortali del sabato sera? Quante ore all’educazione contro le sostanze stupefacenti? Quante per evitare l’abuso di alcol o imparare a vivere in contesti territoriali mafiosi?

Dunque, sarebbe il caso di riflettere sull’autonomia scolastica, che di fatto è dimidiata o vanificata dal centralismo ministeriale sostenuto dagli accordi sindacali. Vale la pena di ricordare che dal prossimo anno, ormai imminente, la scuola italiana è regolata dai decreti delegati del 1974. Mezzo secolo di una collegialità che oggi appare malfunzionante, poco partecipata, fortemente inattuale. Ma è difficile riformare la deep school della governance scolastica: molto più agevole creare nuove educazioni, anche se destinate ad avere una scarsa efficacia.

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