L’intero Parlamento italiano si trovò d’accordo, a metà del 2019, nel rilevare l’urgenza di progettare un nuovo insegnamento di educazione civica che aiutasse i ragazzi a maturare la loro formazione civica, in accordo con la finalità della scuola, che è quello di far fiorire tutto il bello e il buono che è inscritto nel cuore di ogni alunno. In tempi di individualismo galoppante e di emergenza educativa nelle famiglie e nella società era piaciuta praticamente a tutti i parlamentari dei diversi schieramenti (e infatti la legge fu approvata senza un solo voto contrario) l’idea di favorire la crescita di “virtù civiche” attraverso un insegnamento trasversale, non una materia a sé stante da imparare su un libro (abbiamo già i principi della Costituzione, si tratta di renderli motore del “vissuto” dei ragazzi), ma aperto ad esperienze di cittadinanza attiva e solidale intra ed extra-scolastiche.



Con questo anno scolastico l’educazione civica è stata effettivamente introdotta nell’ordinamento scolastico e perciò non ci appare affatto superfluo (rispetto soprattutto alle tante chiacchiere sparse sui banchi a rotelle e sugli ammennicoli del sistema scolastico) riflettere sul senso di questa innovazione, che rischia di rimanere schiacciata dalle urgenze dei provvedimenti sulle scuole presi per far fronte ai tristi giorni presenti, in cui i nostri ragazzi sono al centro di nuovi lockdown.



In primo luogo va sottolineato il valore culturale dell’operazione, in quanto riprende l’intuizione di Aldo Moro, che portò nel 1958 a introdurre per la prima volta l’educazione civica nei curricoli della scuola italiana: “la Scuola giustamente rivendica il diritto di preparare alla vita, ma è da chiedersi se, astenendosi dal promuovere la consapevolezza critica della strutturazione civica, non prepari piuttosto solo a una carriera”.

La formazione globale del cittadino viene così riscoperta come un compito ineludibile della comunità educante di ogni scuola, anche se il contesto culturale non favorisce certo la ricerca del senso di una “vita associata buona”. Infatti tutti i giovani crescono in un orizzonte dove si afferma l’individualismo radicale: “viviamo nell’epoca dell’imperativo all’autorealizzazione, che ci rende insofferenti verso tutto ciò che può interferire con lo spazio sacro della ‘vita autentica’. Ognuno ha il diritto – e la responsabilità – di giocare la propria partita, senza doversi appoggiare ad altri. Individui ‘assoluti’, sciolti dai vincoli della tradizione e dell’autorità, per avverare il nostro progetto contiamo sulle offerte di un sistema capace di raggiungere livelli di efficienza davvero incredibili. È infatti la libera realizzazione di tutti e di ciascuno il criterio di legittimazione dell’organizzazione sociale nella quale viviamo: moltiplicare i mezzi senza predeterminare i fini individuali costituisce il grande mito della contemporaneità” (Magatti).



Ma come può consistere una società che non ha più un fine in comune e che non avverte la necessità di una comunità che non sia un distributore di servizi?

Il nuovo insegnamento appare quindi come un grande strumento per riscoprire una nuova modalità di concezione della vita sociale e per sfidare in radice l’individualismo dominante con la connessa insensibilità e indifferenza verso il bene comune. Chi concepisce e progetta la propria vita secondo la logica individualista infatti non percepisce il bene dell’altro come un bene proprio, ossia come un bene comune.

L’istituzione stessa del nuovo insegnamento costituisce il segnale del fallimento dell’ipotesi politico-culturale del liberalismo multiculturalista, che considera la cultura o le culture (sia quelle dei singoli e dei gruppi sociali, etnici e religiosi come quelle nazionali), come sovrastrutture da relativizzare e da ricostruire continuamente nell’interscambio tra soggetti, individui e gruppi che scelgono di volta in volta cosa essere e come essere (la cosiddetta società liquida di Bauman). Se coerentemente sviluppata, questa ipotesi conduce infatti a considerare il rapporto tra l’io e l’altro solo come un continuo compromesso, garantito dallo Stato, tra pluralità autoreferenziali.

Per una scuola che si consideri “comunità di comunità” è il momento di una battaglia culturale per aiutare i giovani a riscoprire attraverso percorsi formativi efficaci e ben strutturati la nostra strutturale condizione antropologica, che è relazionale e naturaliter socievole (per dirla con Aristotele, in contrapposizione all’idea dell’homo homini lupus di Hobbes). “Il nostro ombelico, a torto diventato l’emblema dell’autoreferenzialità, ci ricorda che siamo prima di tutto legame. E perciò persone, non semplici individui” annota ancora Magatti.

Ci aiuta a sviluppare questa prospettiva un agile testo, pubblicato in questi giorni, e frutto della collaborazione di un gruppo di studiosi di diverse discipline: La sfida dell’educazione civica. Principi, temi, percorsi di vita sociale a scuola (Tecnodid Editrice, pagine 144). Il volume non è un nuovo libro di testo né un manuale di istruzioni per l’applicazione di una normativa scolastica, ma vuole coinvolgere i docenti di tutte le discipline e dei diversi ordini di scuole, sulla possibilità di contribuire alla rinascita di una relazione educativa che consideri la “vita buona insieme” come fine umano autentico.

Il “fil rouge” del libro è infatti la proposta di una didattica esperienziale, capace di attraversare lo specifico disciplinare per puntare sull’acquisizione di una “etica civile” fondata sulla maturazione di virtù sociali, frutto della riflessione critica su progetti ed esperienze formative, inserite in percorsi strutturati sul piano valoriale (con dispositivi di valutazione centrati sulle virtù civiche come soft skills).

È importante sottolineare la “universalità” della prospettiva di lavoro, perché la maturazione dei valori viene proposta a partire dalla riflessione critica su esperienze formative promosse dai docenti dentro e fuori la scuola (sul modello del Service Learning) piuttosto che su una filosofia morale specifica.

Allo stesso modo i contributi che si confrontano con la Costituzione italiana sono strutturati secondo una modalità di approccio che mira a far comprendere come l’identità del cittadino e del popolo italiano, in quanto comunità che condivide valori, appartenenza e mete, entro una varietà di culture e di territori, scaturisca dall’incontro storico tra le grandi correnti politico-culturali del tempo della Resistenza e della costruzione della Repubblica, che si è coagulato nell’architettura costituzionale.

L’invito è a progettare un’educazione civica “aperta”, in cui ogni scuola autonoma, sulla base dei principi della convivenza civile e dell’introduzione al bene comune, elabori percorsi formativi attenti alle esigenze del territorio e della propria comunità, in modo da favorire la crescita e lo sviluppo delle virtù civiche dei ragazzi (quali sono l’appartenenza a un popolo e a una storia di civiltà, la dedizione al bene comune, il valore della regola come condizione dell’affermazione dell’io, la libertà “liberata”, l’intraprendenza, la fortezza, la solidarietà, la cura del creato…) accompagnandoli nell’appassionata ricerca della verità sull’uomo e sul senso della sua avventura nel mondo.

La scuola italiana oggi, nella sua capacità di progettazione autonoma, appare come un potenziale soggetto guida adeguato alla rinascita di una dedizione al bene comune e di esperienze di socialità positive, come ha mostrato l’impeto educativo di tanti insegnanti e scuole durante il periodo del primo lockdown. Saprà rispondere la nostra scuola a questa sfida che le drammatiche lacerazioni della società ci mostrano come compito urgente per tutti?