Nel prologo del Padrone del mondo, Mr. Templeton, ricostruendo il corso storico degli eventi, dice: “prima avevamo a che fare con il puro e semplice materialismo … questo finché non è nata la psicologia … essa reclama tutto per sé il regno dello spirito, e vuole spiegare naturalmente anche le aspirazioni al soprannaturale. È questa la sua pretesa!”. Forse non siamo ancora giunti al realizzarsi pieno della profetica visione di Benson. Tuttavia, non la psicologia come giusta pratica terapeutica, ma un’ideologia pan-psicologistica che tende a ridurre lo spirituale all’emozionale e l’educazione a tecnica di controllo affettivo delle giovani generazioni, è ormai diffusa anche a livello popolare.



Tra i principali diffusori di questo pensiero, oltre ai social e alla musica, il cinema. Purtroppo ne è un esempio, a mio avviso, Inside Out 2 della casa di produzione che ormai della cara Pixar di un tempo porta quasi solo il nome.

Lisa Damour e Dacher Keltner sono negli USA due psicologi molto affermati e influenti. Entrambi hanno lavorato per diversi anni con Kelsey Mann e Meg Le Fauve, rispettivamente regista e sceneggiatrice di Inside Out 2, a definire i contenuti psicologici e ogni minimo particolare del film (espressioni facciali e movimenti dei personaggi, tono della loro voce nelle varie situazioni, look, etc.). La Damour è quella che ha maggiormente influenzato l’idea e la struttura narrativa del film, tanto che Inside Out 2 si può considerare la messa in scena cinematografica dei suoi due bestsellers Untangled e Under pressure, due manuali di psicologia pratica rivolti soprattutto ai genitori e agli educatori di ragazze adolescenti (di maschi non si parla mai; anche nel film, i maschi praticamente non ci sono, come non si accenna al sesso).



L’idea base del primo libro, Untangled (lett. “sbrogliato, risolto”), concept chiave del film stesso, è che ci sia uno schema prevedibile per come crescono gli individui, sette “modelli” di transizione, facilmente riconoscibili, dall’infanzia all’adolescenza e all’età adulta; essi sono come delle temporanee strutture emotive che formano un senso del sé provvisorio, caratterizzando una particolare fase della vita. La crescita, ma sarebbe forse meglio dire l’evoluzione, della persona avviene in modo spontaneo con l’accrescersi del bagaglio emotivo e il formarsi autonomo di equilibri stabili momentanei. Il secondo manuale della Damour, Under pressure, senza chiedersi troppo perché lo stress e l’ansia caratterizzano sempre di più i giovani di oggi, spiega appunto come riconoscere, affrontare e accogliere le nuove emozioni tipiche, secondo lei, dell’adolescente (l’ansia, soprattutto, che non a caso è la vera protagonista del film).



Bene, in questo quadro qual è il ruolo degli adulti? Questi devono limitarsi ad aiutare le figlie (o le proprie alunne) a riconoscere il modello che stanno vivendo e le nuove emozioni in gioco, non intervenendo troppo sul crearsi autonomo del sé. Essi devono sottolineare i benefici di tutte le emozioni, aiutare le figlie ad accettarle con calma e a controllarle. A questo scopo, l’autrice mette a disposizione di genitori e istituzioni educative, delle guide dettagliate su come condurre le giovani in questo lavoro di strutturazione emotiva.

Tutto questo ha degli aspetti sicuramente interessanti e utili dal punto di vista psicoterapeutico, ma dietro ogni impostazione psicologica c’è sempre un’antropologia. Qual è in questo caso? Keltner ha fondato il Greater Good Science Center (GGSC), un think tank psico-antropologico il cui scopo generale è “promuovere una società più gentile e compassionevole” nella convinzione profonda che “la felicità … è un insieme di abilità che possono essere insegnate e, con la pratica, sviluppate nel tempo”. Tutto si basa su di un’antropologia ottimistica, quasi rousseauiana, per cui l’uomo è per natura gentile e compassionevole, ma deve scoprirlo e assumerlo progressivamente come coscienza. Scopo del GGSC è promuovere questa “nuova consapevolezza sulla natura umana” per sostenere le istituzioni educative a “supportare lo sviluppo socio-emotivo, formando una nuova generazione meglio equipaggiata per gestire i conflitti, gestire lo stress e ampliare i propri orizzonti di gentilezza e compassione” (Cit. dal sito ggsc.com).

Questo è il modello antropologico di riferimento. Chi sono io secondo questa idea? Sono il risultato transitorio dell’equilibrio delle tante emozioni che popolano la mia psiche e che si sono configurate spontaneamente nel corso della mia vita in questo attuale “me” con l’aiuto dei ricordi più preziosi. Non ho bisogno di nessuna educazione, di nessun maestro, di nessuna tradizione o appartenenza. E non ho neanche tanto bisogno di amici veri. Le “amicizie” sono sempre riferite egoisticamente al mio sé, estensioni delle mie emozioni. È una nuova versione del self-made-man quella che si vuole affermare, per la quale però non conta neanche più lo sforzo della libertà e l’impegno delle proprie energie psicofisiche, ma solo il dionisiaco lasciarsi andare al flusso emotivo. Nessuna libertà – quindi nessun bene o male –, nessun esercizio della ragione che vaglia le possibili alternative di valore, perché non c’è niente per cui valga la pena di vivere al di là delle emozioni che provo.

Al contrario del cupo scenario che sono andato delineando, quello finale di Inside Out 2 è luminoso e positivo. Riley torna a casa contenta perché ha riacquistato un equilibrio affettivo stabile e ha imparato che anche le emozioni “negative” e i brutti ricordi servono. Le emozioni si sono “comprese” tra loro e alleate per strutturare in Riley un nuovo sentimento di sé, adeguato alle nuove problematiche e alle attese del mondo circostante e della società. Tutto questo senza quasi nessun intervento esterno di adulti. E in questo, forse, risiede la chiave del successo di questo film: è una narrazione rassicurante, per gli adulti e per i figli. Questi potranno pensare che ogni problema si risolverà da solo con l’aggiustarsi emotivo al prossimo step del loro guazzabuglio affettivo. I primi possono trovare un nuovo rappacificante motivo per ritirarsi dalle proprie responsabilità educative. Effetti palliativi che durano poco però: la prima cotta, l’ennesimo brutto voto a scuola, gli amici che non ti filano, le litigate a casa e tutto andrà per aria, com’è nelle cose che sia.

La positività del film sta sicuramente nel sollecitare tutti a comprendere l’importanza della nostra vita emotiva e ad avere tenerezza per essa. Può aiutare gli adulti a prendere sul serio le emozioni dei figli e non considerarle un semplice capriccio, per ascoltarli ed aprirsi a loro in un dialogo fruttuoso. Ma poi, per amore dei nostri ragazzi, la psicologia, salvo casi particolari, deve cedere il posto all’educazione, perché il dominio delle emozioni è uno spazio troppo ristretto per l’umano. Le emozioni sono importanti proprio perché rimandano a qualcosa che non possono risolvere, sono come degli scrigni che contengono un segreto prezioso e decisivo che va scoperto; sono il segno di un Tu che chiama e di cui l’Io ha bisogno per compiersi veramente.

Durante gli esercizi degli universitari di CL nel 1992, rispondendo ad un giovane che gli chiedeva quale valore dare alle emozioni nella propria vita, don Giussani disse: “ci può essere un aspetto dell’emozione che sollecita la tua intelligenza e la tua affettività, e un aspetto di essa che invece non la riguarda. Se segui il primo aspetto, l’emozione diventa la modalità con cui la realtà ti richiama a una vocazione… Se vuoi salvare la verità della tua emozione devi ‘registrarla’, devi dominarla, devi possederla, devi cioè utilizzarla per lo scopo che può farti raggiungere, per quella capacità di rapporto affettivo che può essere vissuto”. Ma subito, don Giussani aggiungeva che “senza compagnia, tutte queste cose non diventerebbero fattori attivi e mobilitanti, educativi della nostra persona, e noi saremmo come gente che cammina nel folto di una foresta vergine, senza strada, senza capire dov’è” (in Realtà e giovinezza. La sfida, pp. 81-82).

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