Perché i ragazzi temono l’esame di Stato, quello che una volta si definiva semplicemente come “Maturità”? Se pensiamo che l’universo dei “maturandi”, una volta ammessi, supera l’esame con una percentuale che va oltre il 99%, non ci dovrebbero essere particolari ragioni d’inquietudine: la selettività è pressoché inesistente. Ma i timori persistono. Verrebbe da pensare che, se insegnanti e genitori li rasserenassero prima dell’esame, e gli studenti prestassero loro ascolto, potrebbero evitare le crisi di panico o i blocchi emotivi durante il colloquio. In fondo, considerato il fatto che il rischio di bocciatura è praticamente nullo, si tratterebbe di prendere atto semplicemente di un principio di realtà, che dovrebbe essere già acquisito, e regolare l’emotività di conseguenza. Ma anche se gli adulti intervenissero (e talvolta lo fanno) con questo intento rassicurante, il timore non verrebbe meno, talché si può ricavare che il ragionamento da fare sia un altro. Infatti, le prove che attendono i ragazzi hanno semplicemente cambiato natura, ma non per questo sono diventate più agevoli.



Cerchiamo di analizzare la questione muovendo da un primo cambiamento.

Molti osservatori concordano nell’affermare che l’esame di maturità non rappresenta più un rito di passaggio all’età adulta, una sorta di iniziazione per l’ingresso nella società con l’abbandono definitivo dell’adolescenza. Non è più uno scoglio irto, un ostacolo oggettivo che preclude l’accesso alla dimensione adulta delle responsabilità, dove bisogna fare i conti anzitutto con la scelta tra la prosecuzione degli studi e l’ingresso nel mondo del lavoro. Il bivio tra le due opzioni certamente si presenta; ma all’interno delle famiglie che continuano a vivere condizioni di relativo benessere e che sono ancora di numero cospicuo, nonostante la crescita delle posizioni di povertà, quel bivio può essere affrontato in un tempo successivo. In quelle famiglie, che configurano la “società signorile di massa” di cui parla Luca Ricolfi, i giovani possono continuare i loro percorsi erratici, senza aver intrapreso una scelta definitiva e responsabilizzante.



Spesso il benessere famigliare rappresenta il corrispettivo del fenomeno dei Neet, cioè dei giovani, in elevato numero, che non sono impegnati in alcuna attività di studio o di apprendistato, tanto meno di lavoro, la cui età convenzionalmente giunge ai 29 anni. Se è vero che i Neet rappresentano senz’altro una sorta di patologia sociale, è altrettanto vero che anche per gli altri giovani, quelli che non vivono una tale condizione, il momento delle scelte importanti va ben oltre il tempo dell’esame.

In sostanza, laddove non c’è un profondo disagio economico, le cosiddette scelte di vita vengono generalmente procrastinate. Quindi l’esame di Stato, nella maggior parte dei casi, ha perso l’antica valenza di rito di transizione, anche perché l’adolescenza si è prolungata ed esso non rappresenta più il passaggio del Rubicone verso l’età adulta. Ma il punto di fondo, a mio avviso, è che i riti di passaggio si muovevano nel teatro della dialettica tra l’individuo e la comunità, in un equilibrio tra soggettività e realtà esterna, tra uomo e natura. Le prove alle quali gli iniziati erano sottoposti preludevano, infatti, all’accesso a un nuovo status, definibile nel rapporto con il mondo adulto, oggettivo e strutturato.



Vediamo, adesso, un secondo cambiamento.

Se, come abbiamo visto, l’esame di maturità ha perso la capacità di segnare l’oggettivo e fattuale trapasso dall’adolescenza alla condizione adulta, non per questo esso ha dismesso la sua condizione soggettiva. Ed è infatti su quest’ultima dimensione che l’esame mantiene, intatte, le sue caratteristiche. Anzi, non solamente intatte, ma fortemente potenziate. Esso, adesso, è principalmente un’esperienza interiore. La vita di molti giovani, infatti, si è spostata dalla dimensione sociale o esterna a un mondo soggettivo e interno, in cui il rapporto con gli altri avviene con la mediazione dei social. La pandemia ha favorito questo passaggio, imponendo con il lockdown una sempre maggiore “introversione” delle esperienze. Perfino quelle sessuali hanno assunto una natura mediatizzata, con lo straordinario aumento del consumo di immagini pornografiche. La rete di relazioni personali si condensa nell’uso degli smartphone (per scrivere messaggi, email, entrare nei social, navigare in Internet, ecc.) e di per sé non pare necessitare di contatti fisici. I giovani si misurano sempre più con l’immagine che presentano nei social, piuttosto che con gli altri, nelle relazioni effettive vis à vis. Ma il confronto online della propria immagine con quella altrui, cioè con i parametri ritenuti ideali, è inquietante, perché è una rincorsa continua ed estenuante verso una meta ineffabile.

Qui si pone l’esame di Stato, i cui esiti sono un segno di prestigio sociale o della sua mancanza. Il voto diventa soprattutto un’espressione di adeguatezza sociale, che ciascuno esperisce nella propria interiorità, dove sono elaborati i parametri ideali. La socialità, che si è depositata nella vita online, in realtà ha ben poco di sociale, perché è priva di corporeità e si inabissa nell’introversione. Gli esami di maturità sono diventati così un’esperienza soggettiva, dove la sfida non è più il superamento delle prove, oggi semplificate e generalmente corrette con molta elasticità, ma l’acquisizione di un’immagine di sé appropriata alle aspettative. Sono una sfida interiore per verificare la propria adeguatezza rispetto all’autocoscienza, cioè all’idea che ciascuno si è formato di sé stesso. Ma tale idea racchiude sempre più un ideale di successo irraggiungibile.

Per questo le tradizionali prove non cessano di intimorire i “maturandi”, dacché le sfide con sé stessi sono quelle più impegnative. Adesso che l’’esame di maturità non ha più una valenza di rito di passaggio, con il suo carico di oggettività, non conta la sua sostanza, cioè se si è promossi o bocciati, ma il voto. Ancora qualche decennio fa la promozione e l’ingresso nell’età adulta in qualche misura premiavano di per sé, a prescindere dal voto. Esso certamente non era indifferente, ma adesso ciò che conta è solo il voto.

Così anche pochi punti in meno rispetto alle attese possono innescare profonde insoddisfazioni, dacché il metro di misura non è l’oggettività esterna, ma l’interiorità, animata da quegli stereotipi sociali del successo personale. Il rito dell’esame, così, è sprofondato in un’interiorità mediata dai social e non improntata dal valore dei significati profondi. In questo caso, il grado negativo d’incoerenza tra i risultati dell’esame e le aspettative può essere molto pesante. I ragazzi sentono tutto questo e continuano a temere l’esame di maturità.

Questo rito, oggi, richiede una profonda revisione, che tuttavia può nascere solamente dall’acquisizione di un nuovo orizzonte di senso che si irradi nei processi educativi.

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