Ogni benedetto anno si ripete il rito scolastico degli esami. Ogni anno, come per la Treccani, c’è l’aggiornamento, rigorosamente fatto non a settembre, ma a treno in corsa. Il tutto si traduce, sempre, in burocrazia maggiore e nuove carte da compilare. Viene male a guardare certe videate su registri o siti, che generano ansia per la loro complessità.
E così, dopo i discorsi “pedagogici” dei mesi precedenti conditi di acronimi, anglicismi (vision, mission, flipped classroom, ecc.) e lunghi discorsi sulle virtù della scuola senza zaino, finalmente arriva lui: lo studente, o meglio, il candidato da esaminare.
Dopo l’epocale passaggio dalla Dad (didattica a distanza) alla Ddi (didattica digitale integrata), la tentazione di ogni docente navigato e snervato è quella del possesso palla a centrocampo o “melina”. Traduco. Domande prefabbricate che trovi da decenni in ogni commissione, a cui l’alunno risponde in maniera altrettanto programmata e prevedibile. Poi tutti felici e contenti, perché il colloquio è andato come da copione. Tutto a posto e tutto in ordine. Le famiglie non protestano, i voti sono giusti. Nessuna sorpresa, nessuna emozione: insomma l’anestesia ha fatto effetto.
Però, talvolta, accade qualcosa che destruttura e fa deragliare l’ordine prestabilito. Un io, un soggetto diverso che si pone e dice altro. Una vita pulsante e non un fascio di nozioni, gerarchicamente organizzate e misurabili.
Andrea è certamente un ragazzo speciale: impegnato in oratorio, nel gruppo interculturale, nella Colletta alimentare, nel dibattito argomentato, nel progetto Upside Down per la Costituzione. Ma non è solo questo. È di più, molto di più. Andrea, infatti, all’esame ha portato non delle materie, ma la sua umanità, parlando di sé. Il suo colloquio, svoltosi a Verbania, è partito dalla trisomia 21 o sindrome di Down. Ha spiegato alla commissione, con dovizia di particolari, di che si tratta, usando un rigoroso linguaggio scientifico. È poi passato a storia, parlando degli Ausmerzen e dell’eutanasia e ha poi fatto rilevare la mancata obiezione di coscienza dei medici. Ed ha associato all’assenza della ribellione all’ingiustizia la figura dell’inetto in Svevo. Chi è l’inetto? Facile. Chi non coglie la densità dell’attimo. Ogni attimo, anche quello dell’esame, accade davanti a un Altro ed è questa contemporaneità, questo “ora” che ci strappa dal nulla, vincendo angoscia e disperazione. Qui Andrea prende decisamente la rincorsa, perché Agostino, Dostoevskij e Kierkegaard sono i suoi preferiti. Eh sì! Esce fuori l’attaccamento alla maglia, l’appartenenza. E, poi, subito pronto, un plastico sull’energia con il pupazzetto di Homer Simpson e stampe in 3D a spiegare la differenza tra i diversi tipi di energia. Parla della differenza tra fissione e fusione nucleare. E infine, conclude parlando di un’energia diversa: quella dei disabili. Sono energia pura e genuina: energia spirituale. Che stupore!
Diventa, qui, visibile e vera, dentro un volto, un’espressione ripetuta, ma non compresa: “la forza del soggetto consiste nell’intensità della sua autocoscienza” (don Giussani). E infine ricorda a una commissione sbalordita e colpita dalla bella prova – grazie anche alla presenza di Carmen, ex docente e di Maria, la sua brava insegnante di sostegno, che non lo molla un attimo, e sotto lo sguardo della mamma – il compito educativo che i docenti hanno verso i giovani.
Chapeau. Una passione viva e vibrante che rompe il quadro già pensato, fatto di obiettivi e cognitivismo. Il suo esame – un percorso nell’io e dell’io – ci ricorda che non siamo di fronte a uno stanco rito di passaggio, ma al destino di un singolo: quel singolo. E che la scuola come la nostra vita ha bisogno di passione. Ben oltre i “contenuti del colloquio del candidato”.
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